Nella sezione delle ripubblicazioni (‘Reprint’), proponiamo la prima parte del capitolo sulla cucina a Potenza all’epoca in cui lo storico potentino, Raffaele Riviello, scriveva il suo ‘Costumanze, vita e pregiudizi del popolo popolo potentino’ (Garramone e Marchesiello, Potenza, 1893). Potenza ha una grande tradizione culinaria ed un rinomato e famoso marchio culinario, ormai famoso e conosciuto in tutta Italia. Le premesse del brand di oggi sono da ricercare nel passato.
Semplici i costumi, rozza la casa, frugale il cibo, ecco la sintesi della vita normale dei tempi antichi, quando non si avevano vie-nove e ferrovie, ed il commercio e lo scambio si faceva per balze e valli sul dorso dei muli; e sotto le mutabili meteore del nostro cielo, che spesso rendevano pericoloso il cammino. Mancavano le leccardie, ma si aveva più robustezza di corpo; la cucina non luccicava di vasellame, di stoviglie e di utensili di rame; ma si aveva ricchezza di parsimonia e di economia, e contentezza di animo. I cibi erano quasi sempre gli stessi per tutto l’anno, a soltanto nelle feste solenni si vedeva qualche cosa di vario e di goloso. In ogni casa però vi era una certa provvista del bisognevole per la famiglia, secondo lo stato di questa ed il numero della persone. Il pane ogni famiglia se lo faceva a casa, e solo i poveri ed i pezzenti non godevano di tale beneficio. Perciò nel tempo della raccolta si riempivano li ranari (granai), li codd’ (colli), li cascion’ (cassoni) con frumento, granturco, patate e legumi. Chi non ne ritraeva dai fondi suoi e dalla coltura della campagna, si faceva la provvistola, comprandola da altri, per non rimanerne privo nel rigido inverno, e subire i capricci degli avidi manipolatori di carestia. E poi comprare il pane era brutto segno di miseria. Nel fare il pane se ne faceva per lo più una tavola, o na scanatora (una mezza tavola). Sulla tavola vi si mettevano sette o otto panelle o scanate di cinque o sei rotoli ognuna ed erano di pane pesante, bruno, anche quando non si fosse mischiato un pò di granone; e a masticarlo ci volevano denti fortissimi, perchè s’induriva presto; e perciò i vecchi erano costretti a spunzarl’ (bagnarlo), o a ridurlo a pane cotto, per non lasciare nel duro le poche mole superstiti e vacillanti. I contadini solevano quasi sempre mischiare nel frumento il granturco, e alle volte i legumi, ed allora il pane sembrava ferro addirittura. In tempo d’està sovente il pane si ammoffiva; laonde si toglieva quel che era nocivo, e l’altro si menava giù, senza che il palato e lo stomaco ne risentissero. Quando si faceva il pane, si era sempre soliti di prendere una porzione di pasta, la si schiacciava con la mano, e bucherellava nel mezzo con la punta del dito, e si aveva lu ruccul’ (focaccia). Non di rado vi si spalmava dell’olio, si strofinava un pò di erba odorosa e secca, detta rieino (origano, regamo), si mettevano alcuni minuzzoli di cirasedda forte e di aglio tagliuzzato, e con questo poco d’intingolo lo si rendeva saporito, e si mangiava quasi sempre caldo e fumante, con gusto, appena portato dal forno, accompagnandolo con larghi sorsi di sottapera o di cirella, vinetto acido ed inacquato nella rappa (grappa) delle uve spremute di mosto. Agg’ fatt’ nu bell’ rucculo, dicevano le donne, che ti vene lu vulio (golio) di magnà. Più squisito era, quando lo facevano ripieno, ruccul chien’, di cacio, di fette di salciccia; o impastandolo cu li frittil’ (cicciole), allorchè si uccideva il maiale. Nelle famiglie più agiate si usava il pane affiorato e bianco; ma meno per uno o due giorni, che si mangiava buffetto, bisognava che si finissero tutte le panelle, per averne del fresco. Caratteristico uso era, quando le donne uscivano dal forno col pane cotto, perchè invitavano tutte le vicine e le comari, che incontravano, a provarne: Te’, pigliati mpò di masciarura, cioè quella parte del pane più morbido, che segna il punto di contatto tra panella e panella nel mettersi sulla tavola, prima d’infornarsi o di farlo ciero (cera); cioè di metterlo con tutta la tavola nel boccale del forno, per fare prendere la prima aria del fuoco. E bisognava assaggiarne, se non si voleva il rimprovero di ciuota (sciocca), o scostumata. Più tardi si cominciò a fare e a vendere il pane francese, nel quale vi entrava anche la pasta di patate, per averlo più soffice e buffetto, come oggi si manipola e rende il marsigliese leggiero e tutta crosta, in guisa che una patata di questo pane, di dieci centesimi, non pesa duecento grammi. Non è meraviglia se si aspettava con vera bramosia il Natale, perchè solo allora in tutte le famiglie, ricche o povere, col fior fiore della farina di carosella si facevano i tradizionali piccilatiedd’, che erano per noi come il panettone per Milano; piccioli di nome (se mai non si voglia ricorrere per filologia al picchiolato di Pistoia per le punte di mandorle infisse nella crosta), ma grandi e grossi di forma e di peso. Che insolito affaccendarsi era in quei giorni per questi famosi piccilatiedd’ simbolo di straordinaria ed annuale esultanza! Circa un mese prima le buone donne, e madri di famiglia, preparavano il sacco di carosella (maiorica) pel molino, mettendo somma cura a cernerla, scieglierla, ripulirla, per avere bianchissima la farina; e andavano esse per farla macinare al molino. Qualche giorno prima della vigilia i forni si mettevano in continuo esercizio, senza riposo nè giorno nè notte, e si sentiva per i vichi la voce del fornaio o della fornaia, che dava qui e là i desiderato comando: Maria Girarda, Angila Maria ‘mpasta, scana; cioè riduci a pasta la farina, ovvero: riduci la pasta a panelle. E la mamma di famiglia, che da dentro la cada gridava: Che fa lu forn’? Chi temp’ gn’è? Quant’ tavole gni so’? e simili domande, alle quali si rispondeva: mo tira la brascia; – si a temp’; – ti trov’ bona : ed altre assicurazioni e chiarimenti. Attorno alla fazzatora (madia) una o più donne si ammoinano (si affaccendano) ed affaticano a cernere la farina, affiorarla, o ridurla in pasta. Attorno ad esse le giovinette stanno attente con tanto d’occhi ad imparare il modo e l’arte, mentre i piccininni (fanciulli) col moccio al naso si afferrano alla gonna della mamma, o con le manine si afferrano al labbro della fazzatora, sollevandosi e accorciandosi nella persona per vedere, o avere un pizzico di pasta da metterlo sulla brascia, e assaporare i primi bocconi dei famosi piccilatiedd’. E la povera mamma che si affatica, si dimena coi fianchi e con la schiena, batte coi pugni chiusi e li affonda nella massa della pasta, affinchè questa cresca e riesca bene; e nel tempo stesso sgrida, minaccia, promette e dà ai figli un po’ di pasta, purchè la lascino libera, e stieno quieti. Che scena graziosa! Ma il momento più solenne e difficile è quando bisogna spianare e distendere la pasta per fare i piccilatiedd’, e dare la forma tradizionale e di rito. Allora si chiamano in aiuto le comari e le vicine più esperte, e l’una distende in largo cerchio di piccilatiedd’ un grosso pezzo di pasta di tre o quattro chili dell’attuale peso, e quando vi è riuscita, facendo uso di tutta la valentia, prende svelta sulle braccia il piccilatiedd’, e facendosi largo con la voce, lo trasporta sollecita ed attenta, ed anche timidetta, dalla madia alla tavola, senza che debba guastarsi la forma e la freschezza, il che sarebbe un cattivo augurio per la casa; per la qual cosa quelle donne sono assai accorte e caute che nulla di sconcio avvenga. Chi con una rotella di ferro o di ottone dentata, detta sprone, orla a disegni il giro del piccilatiedd’; e chi vi infigge mandorle mondate con le punte in fuori; e ad ogni tratto dicono: ingraziamm’ Dio» per ringraziarlo più liete ad opera compiuta, augurandosi poi per cent’anni cosiffatta ammoina di domestica allegrezza. Intanto i ragazzi gridano: pur’ a mi lu piccilatiedduzz’, pur’ a mi. E l’uno piange, l’altro insiste, e la mamma che non sa a quali parole ricorrere, e a quale santo votarsi, per raccomandare loro di stare quieti e di avere un pò di pazienza, chè presto saranno contentati nei lori desiderii. La mamma alla fine li appaga nei loro vulii innocenti, capricciosi e fanciulleschi; e i figli sgambettano per la gioia, battono le manine, alzano voci squillanti che sono scatti di riso e di contentezza, e saltano intorno ai loro piccilatiedduzz’, vantando ognuno con occhi scintillanti e con parole enfatiche la grandezza e la bellezza del suo. Spesso passano nella gioia del paragone e del contrasto ad atti di brìo manesco e d’irritazione, e quindi si graffiano in viso, si scippano a vicenda i capelli, si danno dei pugni; e i più piccoli e i più deboli piangono, allargando tanto di bocca, mentre i forti e i prepotenti chinano più volte il capo in aria di trionfo, e temendo poi gli sgridi e le scoppole della mamma, vanno a rincantucciarsi dietro il letto, dietro lo stipo o il cassone, senza mai perdere di vista il proprio piccilatiedd’. Felice età, e benedetta usanza di cari ricordi! Finita questa scena di casa, e venuto il fornaio a prendere la tavola del pane, ecco che la mamma, circondata dai figli grandicelli e dai piccini che ella tiene per mano, o lascia che si afferrino al sottaniello, si avvia con vicine e con comari alla volta del forno. Se di giorno, manco male; ma se di sera, o di notte, si porta la lucernella per farsi lume, e vedere dove mette il piede per la via. Nel forno si vede la folla delle donne, tutte attente ai loro piccilatiedd’, ed il fornaio di inta, che messo lì con la pala innanzi alla bocca del forno, grida e dà ordini, mentre prepara la brace, ed appronta ogni cosa per l’infornata. Che ressa si fa intorno a lui, quando è proprio il momento dell’infornata! Si vocia in tutti i toni, e si fa largo a stenti, urtandosi a vicenda; quindi tra quelle donne si confondono preghiere di assistenza e grida d’imprecazioni, di bestemmie e di minacce; e qualche volta si tuppilano, cioè si afferrano irose pel tuppo e per i capelli, e così succede un vero pugilato e schiamazzo di ossesse e d’infuriate! Guai se dovesse cadere qualche tavola di pane, sarebbe un vero scompiglio di pianto, di grida e di maledizioni per la poveretta che ne avesse la sventura! Più confusa, assordante e battagliera si fa la folla nella sfornata. Vedesi d’innanzi la bocca del forno il fornaio grondante sudore ed arrossito, che con la pala caccia i piccilatiedd’ da dentro la volta infuocata e fiammeggiante, e di tanto in tanto si asciuga la fronte ed il petto velloso con una pezzuola lacera, nera e polverosa. E le donne gli stanno attorno strette, alzando la voce, le braccia, e sollevandosi sulla punta dei piedi. È lu mio, si grida – Vattenn’, ca è lu mio, interrompe un’altra, dando uno spintone – È d’Antonia Maria, dice una terza. La vi’, sta come na ciuota! esclama, volgendosi verso di lei. Ntonia Maria, grida più forte, vieniti a piglià li piccilatiedd’ tovi – No, no, so’ li mii, si sente gridare da altra banda; nu viriri li scropp’ ca gn’ agg’ post’ p’ segn’? E cresce la ressa, crescono le grida, il fornaio si irrita e bestemmia, e succede una babele di confusione strana e pittoresca. Appena una donna ha raccolto i suoi piccialatiedd’, grandi e piccoli, li mette in una cesta, se la carica sulla testa, chiama a raccolta i figli, e facendosi largo a stento tra la folla, infilza l’uscio, e via, gongolando di allegrezza, ma affannosa di respiro. A casa ripassa meglio a rassegna i piccilatiedd’, li conta, vede se ve ne sia qualcuno scagnare (scambiato), mentre i figli con le dita e coi denti aguzzi si sforzano di strappare, senza essere visti, la punta delle mandorle cotte ed incrostate. Se tutto va bene, ella piglia un pò di fiato e di riposo; ma se manca qualche piccilatiedd’, o è scambiato, la poveretta ritorna frettolosa al forno, chiede, visita, fa fracasso e lite; va da questa o da quella vicina, sino a che non trovi il proprio piccilatiedd’, ancorchè sia più piccolo, o più bruno dell’altro. E così continua il chiasso, avvengono contrasti, malumori, inimicizie; e le tenebre della notte rendono più incerti i passi e più fantastica la scena. La cottura di li piccilatiedd’ era la caratteristica più chiassosa ed esilarante del Natale. Ma prima di assaporare quel pane di rito e bianco, la famigliuola doveva mandare giù nello stomaco per parecchi giorni il pane di faritiedd’, cioè della farina di scarto, che era nero, cruscoso e duro, come un pane da cane o da pastori, e nella vigilia del Natale si stava a stomaco digiuno, per meglio gustare lu sant’ piccilatiedd’, e prepararsi con appetito all’oleoso pranzo della sera.