Verso il 1782 scoppiò una grave crisi diplomatica tra il Regno di Napoli e la Santa Sede, il Regno Pontificio. La crisi, che stava per portare addirittura ad uno scisma con la nascita della Chiesa nazionale napoletana (come in Francia con la Chiesa nazionale Gallicana), si aprì nel nome di Giovanni Andrea Serrao, già nominato ma ancora non facente funzioni, vescovo di Potenza. Il Papa (Pio VI) divenne un feroce nemico del vescovo di Potenza e la cronaca dei fatti, da parte del maggior biografo del grande vescovo potentino, riportano alla mente addirittura episodi storici terribili che sono rimasti impressi nella storia europea. Riportano quasi alla mente la persecuzione contro il filosofo ‘eretico’ Giordano Bruno o contro le proposizioni ‘eretiche’ di Galileo Galilei. D’altronde, l’accanimento di Pio VI contro Andrea Serrao era causato anche dal fatto che il Papa considerava il già nominato vescovo di Potenza un ‘eretico’. Vinse il Serrao e vinse la sovranità del Regno di Napoli ed il Serrao divenne anche un simbolo di quella sovranità. Glorificato da Ferdinando I di Borbone e dalla consorte Maria Carolina d’Austria, finalmente il Serrao poté insediarsi nel tanto desiderato seggio episcopale di Potenza. In quanto alla sorte di Pio VI, è veramente il caso di riflettere sulla Nemesi. Fu il Papa a cui toccò in sorte il crollo dell’Ancien Regime e la Rivoluzione Francese. Venne cacciato dalla Santa Sede, catturato dai Francesi, umiliato a morte e strapazzato in un modo che poche volte si vide nella bimillenaria storia della Chiesa contro un Papa. Morì in Francia da prigioniero. Ma questa è un’altra (grande) storia.
(P.a.Q)
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Frattanto il numero delle chiese vacanti cresceva di giorno in giorno per la morte dei vescovi, senza che l’animo di Pio VI si commovesse al vedere erranti senza pastori tante greggi di Gesù Cristo. Allora il governo napoletano escogitò un altro espediente al quale credette che l’ostinazione del Papa non avrebbe potuto resistere. Nel Concordato fra la corte di Roma e l’Imperatore Carlo V si era convenuto che i Re di Napoli farebbero le nomine a ventisei chiese episcopali riconosciute di patronato reale. Il Re fece frugare negli archivi per vedere se vi si scoprivano vecchi titoli che potessero dimostrare che le altre chiese del Regno erano state fondate o dotate dai Re suoi predecessori; si trovò in effetti un gran numero di documenti che provavano chiaramente che quasi tutte le chiese ed abbazie del Regno erano di patronato reale. Si ordinò allora che le sentenze su questo oggetto venissero rispettate, ascoltate le parti; dal tribunale del gran cappellano del Re, tribunale destinato a questa specie di cause e la cui legittimità era ammessa dalla stessa corte di Roma e dove i nunzii del Papa avevano riconosciuto i decreti. Furono fatte le cause, parecchie chiese vennero dichiarate di patronato reale e il Re vi nominò i vescovi. Egli credeva che il Papa non avrebbe potuto rifiutare di consacrarli, perché la nomina è un diritto che la Chiesa riconosce anche ad un qualsiasi semplice privato che abbia fondato un benefizio; ma, al contrario, l’ostinato Pontefice rifiutò la consacrazione. Questo ingiusto rifiuto del Papa valse solo a inasprire sempre più il Re; spingendolo a compiere dei nuovi passi innanzi. Egli sottrasse improvvisamente i monaci alla dipendenza dei generali del loro ordine, residenti in Roma, e tolse inoltre a Roma lo spoglio e le rendite dei benefizi e vescovati vacanti, formandone quello che in Italia si chiama un monte o banca agricola, a beneficio dei coltivatori. Di più; accordò alle comunità greche, che sono molto numerose in Sicilia, in Calabria e in altre province del Regno, un vescovo particolare che nominò. Nuovi colpi per la corte di Roma, sia per la perdita che faceva di queste schiere di monaci ciecamente devote ai suoi ordini, sia perché attraverso questi agenti, come altresì dalle spoglie e rendite delle chiese vacanti, le provenivano, per il passato, forti somme: fonti di ricchezza che perdeva tutte in una volta.
Nel tempo in cui l’esasperazione fra le due corti giungeva al massimo, la chiesa episcopale di Potenza veniva ad essere privata del suo pastore. Era quella una delle ventisei chiese di patronato reale comprese nel Concordato di Carlo V e spettava perciò al Re di nominarvi un vescovo. La voce pubblica chiamava a questo posto l’abate Serrao. Questa preferenza fu un affronto per i preti della chiesa napoletana e il dispetto che ne ebbero portò al culmine l’odio che già provavano per lui; non videro più in lui che un giansenista, un nemico della corte di Roma, e di conseguenza loro nemico. Consacrati in tutti i tempi agli interessi di questa corte e persecutori di tutti gli uomini di ingegno che non pensavano come loro, osarono calunniare il Serrao presso il cappellano del Re incaricato di presentare al sovrano i tre nomi fra i quali doveva scegliere un vescovo per le chiese di suo patronato. Il cappellano del Re era allora Monsignor Sanchez de Luna, arcivescovo di Salerno, che era stato benedettino e professore di Morale nell’Università reale di Napoli: uomo provveduto della migliore dottrina che sapeva distinguere i giusti limiti della potenza del Papa e s’era sempre dimostrato gran difensore della chiesa nazionale. Pieno di dirittura e di una probità assoluta, cercava sempre di innalzare al vescovato uomini sapienti, virtuosi e animati dal puro spirito evangelico; in breve, basterà dire che i papisti l’accusavano di giansenismo per dare una idea adeguata del suo amore per il bene. Questo prelato che conosceva lo zelo farisaico dei preti napoletani e che apprezzava il sapere e le virtù del Serrao, lo mise al primo posto nella lista dei tre candidati che presentò al Re per il vescovato di Potenza e su di lui il Monarca fermò la sua scelta.
Il Serrao previde gli ostacoli ed i fastidi che la sua nomina gli attirerebbe dalla corte di Roma. Aveva scritto con troppo ardire di cose che la riguardavano e dei diritti dei sovrani negli affari ecclesiastici per non doversi aspettare di tutto. D’altra parte, egli andava a Roma nel tempo stesso i cui i dissidi fra il Re ed il Papa erano nel massimo fermento; non poteva quindi esservi ricevuto in altro modo che male. Fu sul punto di rifiutare il vescovato a cui lo si nominava, ma i suoi amici lo dissuasero ed egli partì. Il Papa era già prevenuto contro di lui, ma non poteva dispensarsi dal consacrarlo come faceva per le altre chiese; quella di Potenza era compresa nel Concordato che i suoi predecessori ed egli stesso avevano sempre osservato; rifiutarvisi significava portare le cose all’estremo e convincere il Re a convocare un concilio nazionale, cosa di cui il Re lo minacciava da lungo tempo, per consacrare il Serrao. Si cercò, dunque, per autorizzare il rifiuto, di attaccare la dottrina del nuovo vescovo, prendendo a testo la sua opera De claris catechistis. Lo si accusò di giansenismo, di aver lodato il catechismo del Mesenguy, di aver difeso i diritti dei sovrani in materia ecclesiastica e si rifiutò di consacrarlo se egli non faceva prima pubblica ritrattazione. Per indurlo a questo passo gli promisero grandi onori; si giunse persino a volerlo fare governatore di Roma, minacciandolo poi, in caso di rifiuto, di non consacrarlo mai e di perseguitarlo fino alla morte. Il Serrao non si lasciò intimidire dalle minacce, né sedurre dalle ricompense; egli spiegò e difese i suoi sentimenti in una dotta memoria in cui non c’era da far risposta (non c’era nulla da obiettare oppure che non ammetteva replica n.n.). Ma il Papa non voleva la difesa; esigeva ritrattazione e nulla poté convincerlo. Il Serrao comunicò alla corte pontificia lo stato delle cose, trasmettendo una copia della memoria e compiacendosi molto presso il Re (di Napoli) della parte che il savio ministro di Spagna , il cavaliere Azara, aveva preso in suo favore in questa faccenda. Il Re (di Napoli che era Ferdinando I di Borbone n.n.), offeso dall’avversione del Papa (Papa Pio VI n.n.) al vescovo eletto di Potenza, mostrò il suo malcontento e formò subito una commissione composta da teologi di corte incaricandola di esaminare a fondo la cosa e di dare il suo avviso. Il primo di questi teologi di corte era Francesco Conforti, professore di storia dei concilii generali all’Università di Napoli, dottissimo in teologia, in diritto civile e canonico e soprattutto in diritto pubblico; era di grandi conoscenze anche in altri campi e conosceva inoltre tutte le lingue erudite. Il secondo era padre maestro Maroni, domenicano, professore della teologia di San Tommaso d’Aquino nella stessa università ma che insegnava purgata di tutto l’arabismo aristotelico, molto versato, d’altra parte, nella conoscenza delle sacre scritture e dei padri, ottimo filosofo; in una parola, di monaco non aveva che l’abito. Il terzo era il padre Don Chiliano dell’illustre famiglia dei Caracciolo, abate del monastero di Monte Oliveto di Napoli, prelato non inferiore in dottrina ai suoi due colleghi, acceso di grande zelo per il mantenimento della disciplina dei primi secoli della Chiesa.
Questi tre commissari, esaminate le accuse della Santa Sede romana contro il Serrao e la memoria da questi fatta in risposta, esposero al Re nel loro rapporto che le proposizioni dell’eletto a Potenza non esigevano alcuna ritrattazione, essendo conformi alla sana dottrina della Chiesa e ai diritti incontestabili della sovranità, che, nel caso in cui il Papa non fosse soddisfatto delle giustificazioni del Serrao, e sordo alle rimostranze del Re si rifiutasse ostinatamente di consacrarlo, consigliavano a Sua Maestà di convocare un Concilio nazionale nel quale si farebbero ammettere le libertà della Chiesa Gallicana, quali le godeva la Francia prima del Concordato di Francesco I e consacrare non solo l’eletto di Potenza ma tutti gli altri vescovi nominati dal Re di Napoli e che Pio Vi rifiutava di consacrare per conservare un preteso diritto usurpato sui popoli e sui metropolitani del Regno, ai quali un tempo spettava di eleggere e consacrare i loro vescovi. Infine, dopo aver fatto meritati elogi della fermezza con la quale Serrao, e malgrado ogni minaccia, aveva rifiutato di fare ritrattazione dicevano che conveniva a Sua Maestà adottare i mezzi che giudicherebbe più opportuni per mettere al sicuro la vita di un suddito così fedele e per metterlo in condizione di vivere decorosamente a Roma, visto che era per proprio conto scarsamente provvisto di beni di fortuna e che era facile prevedere che, se non si agiva con calore, la corte di Roma con i suoi soliti raggiri avrebbe trascinato la cosa in lungo.
Il Re scrisse al suo ministro a Roma (l’ambasciatore? n.n.) in conformità con i sentimenti dei suoi teologi e gli ordinò di far intendere al Papa che le proposizioni del Serrao non meritavano di essere ritrattate, che lo meritavano ancor meno dopo che egli aveva reso dei propri sentimenti in un pubblico memoriale e che doveva quindi consacrarlo, altrimenti egli avrebbe preso il provvedimento che meglio gli converrebbe in proposito. Nello stesso tempo, fece sapere al Serrao, per mezzo del suo Segretario di Stato, il Marchese della Sambuca, che gli assegnava un terzo delle rendite del suo vescovato e gli ingiungeva di andare immediatamente ad abitare il suo Palazzo Farnese, dove era alloggiato il Ministro di Napoli in modo da poterlo avere più a sua portata per comunicargli le sue idee e di tenerlo più al riparo dalle acque di Perugia o anche dai pugnali della corte di Roma che lo minacciavano. Il Serrao ringraziò il Re e si trasferì subito a Palazzo Farnese. Ma se qui fu al sicuro dai pugnali romani e dalle Acque di Perugia vi subì però un altro incidente che lo trattenne a letto per parecchi mesi. Un giorno che a Roma era piovuto ininterrottamente, essendo il cielo tornato sereno verso il calar del sole, il Serrao uscì per prendere aria a passeggiare su una grande terrazza di Palazzo Farnese. Il muschio di cui il pavimento era coperto e la recente pioggia avevano reso il luogo molto sdrucciolevole; camminando distrattamente egli mise il piede sul muschio scivolo e cadde slogandosi il femore. Chiamò a lungo soccorso, ma inutilmente perché quel luogo era lontano dalle parti abitate del palazzo: fu allora costretto, fra le più crudeli sofferenze, a trascinarsi per terra sul fianco sinistro fino al suo appartamento dove fu subito disteso su un letto. Alla notizia sparsasi di questo accidente (incidente n.n.) e di quest’osso slogato in un punto molto difficile, tutta Roma ed il Papa stesso gridarono al miracolo, al castigo del Cielo contro l’eretico (nome che gli italiani prodigano troppo spesso ai migliori cristiani quando non siamo papisti) e gli presagirono la morte più dolorosa e più rapida. Ma la mano abile di un eccellente chirurgo chiamato a curarlo rese vani sia il miracolo che il presagio: l’osso fu ricollocato nella cavità donde era uscito ed il ferito riebbe la vita. Il Serrao dopo qualche mese di letto guarì così bene che appena si poteva scorgere che egli zoppicava un poco.
(…)
Il Ministro di Napoli presso la corte romana, avendo nel frattempo ricevuto le istruzioni dalla propria, dichiarò molto energicamente il sentimento del Re al Papa circa il caso Serrao. Il Papa si mostrò sulle prime scosso da quelle ragioni e disposto a terminare la questione ma l’ex gesuita Zaccaria ed altri consiglieri della stessa sorta lo ricondussero alla sua naturale ostinazione. Persisté dunque nel pretendere che il Serrao ritrattasse le sue pericolose massime, secondo la formula che gli avrebbe dettata esso stesso, e per quante buone ragioni allegasse il Ministro di Spagna, che anche in questa occasione sostenne la causa della corte di Napoli, rimase inflessibile. Il Re, stanco infine di questi vani tentativi e delle lentezze interminabili della Santa Sede, fece dire al Papa se il Serrao non veniva consacrato senza indugio e senza restrizioni egli ricorrerebbe a provvedimenti estremi di cui il Papa verrebbe a pentirsi. La crisi era sul punto di diventare violenta e Pio Vi cominciò ad allarmarsi. Egli sentì allora la necessità di consiglieri più saggi ed affidò gli interessi della Santa Sede ai cardinali Antonelli, Albani, Boschi, Zelada e Casali. La scelta preoccupò da prima il Serrao; questi cinque cardinali, al di fuori di Zelada, erano tutti creature o amici dei Gesuiti; ma bisogna rendere omaggio alla verità, essi agirono in buona fede e riuscirono abilmente a superare il primo ostacolo che s’opponeva al successo. Fecero consentire il Papa a consacrare non solo il Serrao ma anche i ventiquattro altri vescovi fino ad allora nominati dal Re. Ma le sottigliezze teologiche non erano ancora del tutto esaurite a Roma. Pio VI credeva di aver fatto un grande sforzo piegandosi a consacrare il Serrao. L’eletto di Potenza aveva suscitato scandalo con le sue asserzioni eterodosse. doveva dunque edificare con una professione di fede autentica e ben circonstanziata. Non basta forse – rispondeva il Serrao – aver respinto le accuse che mi sono state fatte? Aver riconosciuto e riconoscere il Papa come capo supremo e centro unificatore della Chiesa cattolica? Ma questo non bastava a Pio VI: egli voleva una professione di fede particolareggiata. Pretese infine che il Serrao rispondesse a viva voce a undici proposizioni che gli verrebbero poste. Ne riferirò alcune per mostrare in quale stato fosse, quanto a progresso mentale, il Sacro Collegio, e perché si giudichi se tali proposizioni fossero ammissibili alla fine del secolo decimottavo.
Avete una venerazione sincera per la Santa Sede? Riconoscete nel Papa una autorità assoluta e illimitata su tutto ciò che riguarda la conservazione della religione e della dignità ecclesiastica ?
Avete mai voluto contravvenire alla bolla Unigenitus?
Credete che il catechismo italiano, attribuito al Fleury, abbia bisogno di correzioni?
Approvate gli ordini regolari confermati dalla Santa Sede e credete che se osservano esattamente le loro regole, possano essere utili alla Chiesa?
Avete mai disapprovato la proprietà ecclesiastica anche se amministrata convenientemente?
Vi proponete di sottomettere le vostre azioni pubbliche all’ispezione ed al giudizio della Santa Sede? ecc. ecc.
Si potevano seriamente ammettere proposizioni così capziose e così ridicole? Il Serrao rispose che non poteva far nulla senza il consenso del suo sovrano che si affrettò a mettere a parte della cosa. I ministri del Re ed i teologi consultati risposero unanimemente che le domande del Papa costituivano una innovazione e inoltre erano una offesa per il Re e per l’eletto di Potenza, che mai aveva dato luogo a sospetti, che le domande in sé confondevano i limiti dei due poteri e ledevano i diritti della sovranità temporale. Il Ministro di Napoli ricevette l’ordine di spiegarsi in questo senso col Papa e di avvertirlo che se non si contentava della dichiarazione già fatta dal Serrao, il Re lo richiamerebbe immediatamente e prenderebbe i provvedimenti che proponevano i teologi di corte. Nello stesso tempo, ingiunse al Serrao che qualsiasi dichiarazione egli credeva di dover fare fosse concepita in modo conforme ai diritti della sovranità ed alle leggi costituzionali del Regno. A così decisa dichiarazione dl Re il Papa fu costretto a consacrare il Serrao senza averne potuto piegare la fermezza. Per un basso rimpianto di vendetta o per una folle speranza si usò ancora con lui il vessatorio procedimento dimetterlo alla prova col fargli subire un lungo e minuzioso esame; ma il Serrao rispose a tutto con padronanza.
(…)
Il Serrao dimostrò ancora la stessa fermezza di spirito quando gli si domandò, come a tutti i vescovi all’atto della consacrazione, il giuramento d’obbedienza cieca alla Santa Sede. Egli rispose: “Sì, salva quella che debbo al mio sovrano”.
Egli partì infine coperto di gloria per quel seggio episcopale che tanto gli avevano disputato (…)
Essendo venuta la stagione favorevole al suo viaggio (il suo viaggio per Potenza n.n.), il Serrao si incamminò verso la sede del suo vescovato. La fama del suo sapere, della sua virtù, dello spirito evangelico di cui era animato l’aveva da lungo tempo preceduto a Potenza. Alla notizia del suo avvicinarsi, il popolo gli andò incontro per un lungo tratto e lo ricevette con le più lunghe acclamazioni di gioia. Egli si recò direttamente alla chiesa, dove rivolse al suo nuovo gregge uno dei più bei discorsi che fossero mai stati fatti, pieno dello spirito che animava i vescovi dei primi secoli della Chiesa. Dimostrò sempre in seguito, sia con le azioni che con le parole, di non essere inferiore all’idea che il popolo (potentino n.n.) aveva concepita di lui.
DOMENICO FORGES DAVANZATI
Nella illustrazione; Papa Pio VI
Estratto da “Giovanni Andrea Serrao, Vescovo di Potenza”, traduzione di Ada Croce, dalla edizione italiana a cura di Benedetto Croce.