Si è appena conclusa l’edizione 2019 della Parata dei Turchi e credo sia opportuno ragionare su alcuni aspetti poco chiari o poco conosciuti sia della Parata che della figura di San Gerardo Della Porta.
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La prima cosa da precisare è che parlare della Festa dei Turchi e parlare della figura storica di San Gerardo non è sempre la stessa cosa. In altri termini, le due narrazioni non sempre combaciano perfettamente, anzi, alcune volte non combaciano affatto. La narrazione sulla Parata dei Turchi comprende, in parte, quella di San Gerardo, ma quella di San Gerardo non comprende affatto quella della Parata. Nella Parata sembrano la stessa cosa, ma non è sempre così. Quindi, terrò le due narrazioni come parzialmente separate. E’ comunque fuor di dubbio che San Gerardo e la Parata sono diventati sempre più gli oggetti o i soggetti di una complessa trama narrativa che include molti significati, significati anche di tipo simbolico.
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Potenza città senza identità? Ma che dicono, che dicono quei poverini di spirito e di cervello che ancora vanno spargendo stupidaggini simili? In realtà, è il contrario esatto. Potenza è una città dall’identità fortissima e molto specifica. Tutta la plurisecolare epopea di San Gerardo e dei Turchi, se ben interpretata. lo sta a dimostrare.
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La Scaramuzza, l’episodio della Parata che è stato aggiunto quest’anno, è una innovazione, ma ciò conferma quanto ho scritto nel saggio sulla Parata dei Turchi uscito su ‘Potentia Review’ nel numero del 28 maggio 2017, e cioè che la Parata dei Turchi è non solo leggenda, non solo storia, ma una metanarrazione simbolica della storia potentina o, meglio, una metanarrazione potentina della storia europeo-occidentale. Si torna sempre lì; alla scaramuccia, al conflitto eterno fra Occidente ed Islam, questione attualissima anche dopo 1400 anni. Ad accrescere l’interesse verso questa festa molto singolare è anche il fatto che questa sentitissima tensione Occidente-Islam trova luogo in una delle poche città meridionali (ma anche italiane) a non essere stata mai presa dai Saraceni o Mori o Turchi che dir si voglia.
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All’interno delle celebrazioni per il 900° anniversario della morte di Gerardo Della Porta è stato (finalmente) attivato uno specifico programma di gemellaggio Potenza-Piacenza, programma che, però, può essere migliorato ancora di molto. Per esempio, il programma di gemellaggio Potenza-Piacenza, oltre che basarsi sul fattore comune San Gerardo Della Porta, piacentino di nobile famiglia diventato icona e Protettore di Potenza, può alimentarsi di altre cose che abbiamo in comune con la città emiliana (emiliana ma più lombarda che emiliana); il comune passato romano ed il Risorgimento.
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L’io narrante della festa è l’inconscio del popolo potentino attraverso i secoli, il ‘genius loci’. I fatti storici che sono stati richiamati per dare una spiegazione storica all’origine della Parata non debbono entrare in competizione fra di loro per assegnare l’esatta genesi storica. E’ profondamente sbagliato insistere in questo atteggiamento. Ecco perché tutti i fatti vanno collegati insieme come in una narrazione continua; una narrazione che è, in realtà, una meta narrazione simbolica della storia di Potenza, ma anche, al tempo stesso, dell’Occidente.
Io credo che neanche i potentini abbiano ben capito cosa è esattamente La Parata o la Sfilata dei Turchi. Questa ricorrenza è sospesa tra storia e leggenda e l’unico modo veramente aggiornato per capirne il grande valore ed il senso trascendente è intenderla come un metaracconto simbolico dell’Occidente, un metaracconto che pone una festa, quella di Potenza, a simbolo di un conflitto e non di un incontro (ma quale incontro?) tra Europa ed Occidente contro i Saraceni o Mori o Turchi o truppe dell’Islam, che dura da 1400 anni e che è uno dei tratti fondativi della identità europea-occidentale. Questo è il significato ed il senso trascendente (che trascende anche Potenza) di questo grande evento della tradizione (unica festa lucana Patrimonio d’Italia per la Tradizione). C’è ancora un particolare importantissimo che deve essere messo in evidenza. Si tratta del fatto che la Parata dei Turchi (la più importante delle Feste dei Mori e dei Cristiani in Italia) si svolga in una città, come si diceva poc’anzi, che non è stata mai conquistata dai Turchi (né prima da Mori o Saraceni) e questo importantissimo particolare è, al tempo stesso, una conferma indiretta della mia ipotesi metanarrativa. Ma è anche un paradosso stupefacente.
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Scrissi anche un altro testo, il primo testo veramente organico ed esaustivo sui signori Guevara, di cui per secoli non si era mai saputo quasi nulla (nonostante la presenza dell’Università, della Associazione Storia Patria lucana ecc. ecc.). Nella edizione della Parata dell’anno scorso apparve per la prima volta la figura di Porzia de’ Tolomei, di cui ho parlato in quel testo ed anche in un altro, gettando luce su di essa. A dire il vero, non mi sono chiesto per un anno intero il perché di quell’’inserimento Ho pensato tra me e me; “al Comune sono scorretti ed ingrati ma furbi”. Senza dire grazie e senza riconoscere a chi di dovere (il sottoscritto) il merito di aver riscoperto, o scoperto, questa figura, i responsabili della amministrazione De Luca l’hanno inserita nelle rappresentazioni dei Turchi. Non mi sono fatto altre domande, essendo convinto che avessero letto i miei testi e quindi, avevo pensato che avessero la figura di Porzia per via del marito, il conte Carlo, che è una delle nove fonti di ispirazione della Parata (almeno nel mio breve saggio è così). Quest’anno, invece, in occasione della introduzione della ‘Scaramuzza’, ho scoperto che non è così; è peggio ancora. Hanno fatto bene ad inserire la figura di Porzia, ma l’hanno fatto nel modo peggiore. I miei testi quindi non li hanno nemmeno letti e questo peggiora ancor più la situazione perché, nella loro presuntuosa ignoranza, Sindaco ed Assessore alla cultura uscenti o, se non direttamente loro, chi per loro, hanno preso una mega-‘quaglia’ (chiamasi figuraccia, in altri termini), che non squalifica né Potenza, né la Parata, ma squalifica solo loro ed i loro consulenti (ammesso che ne abbiano; penso di sì). Solo ieri, un piccolo particolare della storia della Scaramuzza mi ha fatto capire cosa è successo veramente. Da lì mi sono insospettito ed ho cominciato a cercare su internet qualche spunto per capire chi abbia curato l’operazione per conto del Comune. Girando ancora per internet, per fortuna, mi sono imbattuto in un testo di colui che dovrebbe essere stato il loro consulente. Non ne farò il nome ma mi limiterò a dire che si tratta di una figura di spicco dell’Università della Basilicata. La mega-‘quaglia’ era lì, in quel testo, dove si scrive che è stata ideata “la riproposizione dell’ingresso in Potenza, il 24 giugno 1578, del giovane conte Alfonso de Guevara, figlio di Carlo scomparso agli inizi del 1578, e di Porzia Tolomeo”. Carlo scomparve nel 1574, ma non è quello il punto. Ciò che non viene detto in tutta l’operazione Scaramuzza è quale Alfonso de Guevara entrò a Potenza nel 1578. Però, il consulente del Comune di Potenza scrive di lui due cose chiare; 1) Era figlio di Carlo; 2) Era giovane. Tenendo conto dei criteri del tempo, oggi ci sembrerebbe molto giovane. E qui casca l’asino. C’è un errore madornale e gravissimo anche per chi non è storico di professione perché il conte che entrò a Potenza il 24 giugno del 1578 non poteva essere assolutamente figlio di Carlo e della contessa Porzia. Chi entrò a Potenza quel giorno del giugno 1578 era il conte Alfonso II de Guevara, mentre il figlio di Carlo era il conte Alfonso I de Guevara. E vengo dunque a spiegare il perché chi entrò nel giugno 1578 e fu onorato della Scaramuzza non poteva essere il figlio di Carlo e di Porzia e non poteva che essere, non genericamente, il conte Alfonso, ma il conte Alfonso II e non il padre, il conte Alfonso I. Insomma, ce ne sono stati due di conti Alfonso di Guevara del ramo principale di Potenza. Del conte Alfonso I (5° conte Guevara di Potenza) sfortunatamente non abbiamo la data della morte, mentre ce l’abbiamo per il conte Carlo (4° conte Guevara di Potenza) e per il conte Alfonso II (6° conte Guevara di Potenza). Però, con un giro di ipotesi storiche plausibili, possiamo capire lo stesso che chi entrò in quel giorno di giugno 1578 non era figlio di Carlo e di Porzia. Vediamo un pochino se riesco a spiegarlo nella maniera più semplice. Carlo de Guevara sposa Porzia intorno al 1535-1536. Ne fanno fede le cronache di Grumo Appula da cui risulta che Porzia de’ Tolomei ottiene in dote il feudo del paese pugliese nel 1536 per il matrimonio contratto con il potente aristocratico della nostra città. Considerando i costumi dei tempi e le esigenze dinastiche non si può fare a meno di pensare che Carlo e Porzia abbiano concepito il primogenito Alfonso I intorno al 1536. Quindi, Alfonso I nacque quasi sicuramente nel 1536, al massimo nel 1537. Già da questo particolare si capisce l’incredibile “quaglia” presa da questa amministrazione comunale; se Porzia nel 1536 si è già sposata, se fa il figlio nel 1536-1537, come fa questo figlio nel 1578 ad essere considerato come ‘giovane’, per lo più secondo i criteri del tempo? Nemmeno oggi sarebbe pensabile considerare come giovane uno che nel 1578 avrebbe avuto 42 anni. Ma non scherziamo davvero… Poi, si può arrivare alla stessa conclusione per altri ragionamenti. Per esempio, ho rinvenuto una lettera del 30 aprile 1562, di Baldassare de Preti al cardinale Ercole Gonzaga, in cui si descrivono minuziosamente i variegati festeggiamenti indetti in quell’anno a Bozzolo, centro dello Stato mantovano di Sabbioneta, da Vespasiano I Gonzaga (fu uno dei grandi del Rinascimento italiano) per celebrare le nozze della sorellastra Beatrice con don Alfonso di Guevara, primogenito del conte di Potenza. Costui era don Alfonso I Guevara. Egli sposò in seconde nozze Beatrice di Lannoy, sorellastra di Vespasiano Gonzaga. Il primo matrimonio di don Alfonso I Guevara era stato molto sfortunato e si era sciolto nel 1558 con la morte della prima moglie Beatrice d’Avalos. Quindi, nel 1562 probabilmente dalle parti di Sabbioneta il nostro concittadino Alfonso I Guevara si risposò con Beatrice di Lannoy. Abbiamo visto che nacque nel 1536; nel 1562 aveva quindi già 26 anni ed era stato già sposato. Oggi può sembrare inverosimile tale precocità matrimoniale ma a quei tempi non lo era affatto. Anche lui non perde tempo e si dà subito da fare per far partorire la seconda moglie. Infatti, Alfonso II de Guevara nasce nel 1562 e nel 1579 è già maritato anch’egli; con Isabella Gesualdo dei principi di Venosa, sorella del grande musicista. Con Alfonso II, Isabella mette al mondo una figlia che si chiama anche lei Porzia, ma quella è Porzia de Guevara non Porzia de’ Tolomei, la bisnonna senese. Il quadro è molto complicato, però fare quel pasticcio descrivendo il conte della Scaramuzza come il figlio di Carlo e di Porzia de’ Tolomei è imperdonabile. Purtroppo, di errori compiuti dal Comune ce ne sarebbe anche un altro. “Don Alfonso de Guevara, sesto conte di Potenza, maritò sua figlia Beatrice ad Enrico di Loffredo, marchese di S. Agata e di Trevico, e così la città, che costituiva la dote nuziale, passò ai Loffredo”. Non saprei proprio dire come Alfonso II de Guevara possa aver maritato la figlia Beatrice, dato che, e voglio calcolare anche la precocità che a quei tempi avevano in fatto di matrimoni e di far figli, morì nel 1584 a soli 22 anni. Misteri del Comune di Potenza e dei suoi misteriosi consulenti.
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Sulla figura storica di San Gerardo, in fondo, finanche nel suo 900° anniversario dalla morte (avvenuta nel 1119), non sappiamo ancora molto. Il poeta lucano Nicola Sole scrisse: “Nudo, errante sull’orme di Cristo /lungi emigra dal suolo natio/finché pone, fermato da Dio/la sua stanza in ignota città”, ma questa è poesia, non storia. Alfredo Cattabiani, noto scrittore cattolico torinese ha cercato di ricostruirla: “L’epoca in cui visse Gerardo fu segnata dalla lotta tra Papato ed Impero per le investiture, ma anche dall’opera di riforma del clero attuata dai Papi dell’XI secolo per eliminare la simonia, molto diffusa e il concubinato dei chierici e per rinnovare la vita ecclesiastica sulla scia degli esempi di vita religiosa dei Cluniacensi, dei Cistercensi, di Fonte Avellana, della Certosa e di Camaldoli. Probabilmente Gerardo faceva parte di quell’imponente movimento di riforma e cercò di attuarlo prima come sacerdote e poi come vescovo. Sicché il popolo stesso venne colpito dal suo esempio e dalla sua predicazione che tendevano ad una vita ecclesiale conforme al Vangelo. Seconda il Messina (don Gerardo Messina n.n.), Gerardo non giunse in Lucania per partecipare alla crociata, ma vi fu spinto dall’entusiasmo per il movimento di riforma, di predicazione e di apostolato che portava in quegli anni numerosi ecclesiastici verso le Chiese meridionali da riformare sia singolarmente sia in comunità, come avveniva per i predicatori, i monaci, i canonici riformati. Basti pensare, ad esempio, a San Guglielmo da Vercelli, fondatore di Montevergine, o allo stesso San Bruno che creava una nuova Certosa nel cuore della Calabria. Che san Gerardo avesse scelto per il suo apostolato la Lucania, anzi, per la precisione, la zona del Vulture che faceva perno su Melfi, capitale del Ducato normanno di Puglia, non era casuale. Da anni la famiglia dei Della Porta si trovava in quelle terre. Quando Urbano II, convocò nel 1095 un concilio a Melfi, il vescovo di quella città era dall’anno precedente un Guglielmo Della Porta, che per essere giunto a quella carica, doveva risiedere nella zona da tanto tempo”. “Un Guglielmo a Melfi, un Gerardo a Potenza, pochi anni dopo, e poi appena nel 1263 un Matteo Giovanni Della Porta, patrizio salernitano, come arcivescovo di Salerno – soggiunge il Messina – giustificano l’ipotesi di una famiglia o colonia piacentina o in ogni modo lombarda qui radicata per ragioni diverse. D’altra parte, la scelta di Melfi per un concilio riformatore induce a pensare che il suo vescovo fosse un fautore degli ideali del Papa. Sicché si potrebbe concludere che tutta la famiglia Della Porta, ormai radicata in Lucania, partecipava attivamente al movimento di rinnovamento ecclesiale. Che poi san Gerardo sia giunto in Lucania da bambino con un ramo della famiglia o vi si sia recato per decisione personale quando era già adulto, non sappiamo. Ma è un particolare che non impedisce di capire meglio il contesto storico e le sollecitazioni che lo spinsero a partecipare al movimento di rinnovamento ecclesiale e ad essere apprezzato dal clero e dal popolo”.
C’è un’altra importantissima fonte sulla figura del Santo Patrono di Potenza, una fonte che a Potenza non viene mai chiamata in causa e citata. Si tratta di un testo del canonico piacentino Pietro Maria Campi: “Historia ecclesiastica di Piacenza”, pubblicato nel 1651 (pagina 382 e seguenti):
“Essendo vacata in Puglia la cattedra episcopale di Potenza (e Dio sa che il Pastor di essa uno non fosse di quegli incarcerati od afflitti prelati dal malvagio Enrico o che egli per avventura non mancasse di dolore per l’intesa prigionia di Pascale) Gherardo nostro, di cui dianzi si disse, quasi stella lucidissima in quella Città viepiù risplendeva; e come che giorno e notte intento a glorificare il Creatore non solo viveva secondo la professione e ordine suo clericale da vero sacerdote e con esempio di somma prudenza, di perfettissima castità e d’ogni altra virtù di quei poveri giovani così nelle lettere, come nei santi costumi gli andava caritativamente istruendo; eletto fu perciò senza discordia alcuna dal popolo per degno successore del trapassato vescovo e confermato loro dal Pontefice Pascale dall’arcivescovo di Acheronza. In questo supremo grado e reggimento delle anime quanto egli a meraviglia e con quanto vantaggio corrispondesse alla grande aspettazione (aspettativa n.n.) che di lui avevano i Potentini esplicar non si può, né meno a me lecito sarebbe il dimostrarlo in questo luogo; massime che nelle Vite dè Santi di Piacenza io sono per narrare (se a Dio piacerà) di esso ancora tutto ciò che dei suoi preclari fatti e dell’acqua cangiata in vino e d’altri miracoli innanzi e dopo morte seguiti, tratto si ha dall’officio proprio antico della sua Chiesa nella di lui festa e da altre scritture cortesemente mandatemi dal venerando Capitolo di quella insigne Cattedrale, ove invece di antifone e d’altri responsori leggevansi già i seguenti versi, benché non troppo ornati, attestanti però l’abbondanza dè vari doni e delle grazie e virtù che ebbe da Dio questo sì buon Pastore…
Ma io non posso qui pretermettere la leggiadra invenzione che questo Santo nostro essendo creato Vescovo (come giudizioso e sapientissimo che era) si formò da sé per arme e impresa sua particolare adoperata poi insin’hoggi dal sovradetto Capitolo e canonici di Potenza negli ornamenti e nei sigilli della loro Chiesa. Ed è che usando gli antenati e il padre di Gherardo (Gerardo n.n.) della famiglia Porta (siccome pure al presente costumano quelli del parentado e sangue suo, cognomi nati in Piacenza i Portapuglia) di portare per insegna una rocca senza torrioli colorita di giallo in campo azzurro egli per non lasciare la propria arme del suo casato divise lo scudo in due parti e fece due imprese quasi ad imitazione di molti che assunti al Cardinalato aggiunger sogliono nei nostri dì all’arme sua quella del promotore Pontefice; ma cangiò inoltre Gherardo i colori di un’arme con quelli dell’altra.e così dal lato campo destro egli pose in campo azzurro tre sbarre gialli piramidali le quali a mio giudicio erano del’arme gentilizia del Papa d’allora, dico di Pascale II stato si può dire promotore di esso Gherardo per aver confermato l’elezione al Vescovado ma sopra di quelle accomoddovvi anche due mezzi draghi similmente coloriti di giallo e dalla parte sinistra campo sinistro vi allocò in campo vermiglio l’impresa della rocca di sua famiglia con tre torrioli bianchi e sopra quel dimezzo che era più alto vi mise la Mitra episcopale. Misterioso invero e degno ritrovamento, esplicante per mio avviso le sante operazioni e pensieri del divin huomo che se di dirlo mi si permetta (per soddisfare la curiosità d’alcuni)
Era questo Santissimo prelato, non vi ha dubbio, stato presente anch’esso al Concilio di Troia nella Puglia, celebratovi da Papa Pasquale nel 1115; al qual si legge che convenissero quasi tutti i Baroni, gli arcivescovi e i vescovi di quelle bande e per la sua molta dottrina e bontà e veneranda canitie egli è da credere che fosse dal Papa e da quei padri avuto in grande stima. Si come pure ad un altro Concilio che nella istessa Città congregò il medesimo Pontefice nell’anno 1117 si sarà finalmente lasciato vedere come vigilantissimo e ubbidiente figliuolo della Romana Sede, il buon Gherardo in tempo che tornato Enrico a Roma con grosso esercito né vi trovando Pascale (occupato appunto in Troia all’ultimo Concilio)”.
I Piacentini ne cominciarono a recitare l’Ufficio nel 1610 e questa notizia la apprendo, invece, dal libro “Ristretto di Storia Patria ad uso dei Piacentini” di Anton Domenico Rossi.
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Tommaso Mazzoni è uno studioso toscano di Empoli, esperto di celebrazioni popolari italiane, che ha approfondito e studiato il Palio di Siena. Egli scrive che, unico al mondo, non ci sono altre manifestazioni popolari in Italia che possano tener testa al Palio di Siena. “Non ho deliberatamente voluto prendere in considerazione i variegati nomi delle tantissime competizioni, che, pur non realizzandosi sotto il fatidico nome di Palio, si svolgono anno dopo anno”.
“Tuttavia – continua Mazzoni – ho pensato intanto di riportare una parte dei nomi generici, che, naturalmente, possono anche combinarsi fra loro in una medesima manifestazione. Leggetene almeno un po’ prima di passare a leggere gli effettivi nomi dei Palii perché, almeno secondo me, sono davvero una autentica meraviglia”. Quindi, Mazzoni passa a fare un elenco di queste meraviglie anche se non si chiamano ufficialmente Palio. Cita il caso dei Fuochi Epifanici di Tarcento (Udine), di Garfagnana in provincia di Lucca, la festa popolare di Gradara in provincia di Pesaro-Urbino, quella di Acquaviva Picena e, scendendo al Sud, egli conclude la breve carrellata con la Sfilata dei Turchi di Potenza. “Tutte celebrazioni, quelle che mi sono onorato di citare, interessantissime e considerevolmente caratterizzate”.
Il giudizio di Mazzoni si unisce ai tanti riconoscimenti da cui la Parata dei Turchi è stata investita nel corso degli ultimi anni: Patrimonio italiano per la Tradizione (una delle 34 feste popolari italiane insignite del massimo riconoscimento), Patrimonio immateriale d’Italia, secondo l’Istituto Centrale per la Demo-etno-Antropologia, Meraviglia d’Italia per il Forum nazionale dei giovani, la più importante festa italiana dei Mori e dei Cristiani e, di conseguenza, anche la più importante festa popolare della Basilicata. Nonostante questa pioggia di importanti riconoscimenti, la Parata non è ancora perfetta e, quindi, può essere ancora migliorata e resa ancor più affascinante. Per esempio, può essere resa più comprensibile, vista anche la sua complessa, sempre più complessa trama narrativa. I tanti turisti e visitatori che vengono da fuori Potenza la sera del 29 maggio di ogni anno per ammirarla spesso non ne capiscono i significati, pur restandone positivamente colpiti. Non hanno tutti i torti se fanno fatica a capirne tutti i risvolti, che sono leggendari ma anche storici. Non hanno tutti i torti anche perché gli stessi potentini non capiscono e non ne conoscono tutti i risvolti. Quanti potentini, ad esempio, hanno capito che quella Gran Dama vestita in nero è la contessa Porzia de’ Tolomei, moglie del quarto conte Guevara del ramo di Potenza, il conte Carlo? E quanti conoscono qualcosa di quelle due figure? Pochissimi potentini. Questo è certo. Come i ‘loggionisti’ dopo la ‘prima’ alla ‘Scala’ di Milano o al Regio di Parma, come accade dopo una partita della Nazionale di calcio (si sa che in Italia ci sono 60 milioni di Commissari Tecnici), anche a Potenza, è d’uso, dopo la Parata, che ciascuno si eserciti nel gioco ‘La mia Parata ideale’. E’ normale ed è anche una cosa positiva finché si tratta di critiche positive e purché non ci si dimentichi che stiamo parlando di una delle feste popolari più belle d’Italia (non per niente è Patrimonio d’Italia per la Tradizione, al pari della Festa dei Gigli di Nola o della Festa di Santa Rosa di Viterbo). Anche io avrei dei ritocchi da apportare, ritocchi di vario tipo, ritocchi di tipo organizzativo e scenico fino a modifiche di impostazione. Ne avrei una decina. Faccio solo uno di questi esempi; la figura, e questa è una figura storica, della contessa Porzia de’ Tolomei, moglie del quarto conte Guevara di Potenza, il conte Carlo de Guevara, a cui ho appena fatto cenno poc’anzi. Sono assolutamente favorevole all’inserimento nella Parata di questa figura, ma le cose bisogna spiegarle e dichiararle. Come ho detto prima, se questa figura è stata inserita perché madre del conte Alfonso che il 24 giugno del 1578 entra in Potenza, allora al Comune hanno preso una cantonata storica perché Porzia non era la madre, ma la nonna di quel conte. Invece, Porzia avrebbe pieno titolo di apparire nella Parata come moglie del conte Carlo, ma il conte Carlo non c’è. E perché avrebbe titolo per apparire in questa diversa veste? La risposta è la seguente da parte mia; avrebbe titolo perché uno dei nove episodi che potrebbero aver ispirato la Parata (secondo l’elenco del mio quasi saggio di due anni fa sul metaracconto), questo mistero medioeval-rinascimentale sostanzialmente basato sul conflitto Cristiani vs. Mori o Turchi o Saraceni, vede come protagonista proprio il conte Carlo. Anche in questo caso, si tratta di fatti storici ed esattamente del momento storico della Spedizione di Algeri dell’A.D. 1541. In quella sfortunata spedizione, Carlo de Guevara, conte di Potenza e Gran Siniscalco del Regno di Napoli, comparve ad Algeri con il suo esercito privato della famiglia Guevara e “con tanta pompa che la sua tenda accolse lo stesso Imperador Carlo” (Viggiano). Si trattava dell’Imperatore Carlo V che stimava molto il nostro concittadino, il conte Carlo de Guevara.
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E, per finire, voglio parlare di un altro mistero medioevale potentino, un mistero che riguarda San Gerardo e non la Parata e che, dopo 900 anni, è ancora irrisolto. La questione da approfondire e da stabilire è la seguente; perché San Gerardo Della Porta venne a Potenza? Si sono fatte almeno tre ipotesi, ma voglio specificare subito che quando non ci sono documenti a supporto di una tesi come dell’altra, allora non è che si possa essere troppo sicuri di niente, nel senso che sembrano, fino a prova contraria, tutte parimenti improbabili. Ma in fatto di fantasia, fra le tre tesi in ballo, quella che mi sembra più fantasiosa ed improbabile è la tesi secondo cui San Gerardo capitò a Potenza perché inviato da Roma (dal Papa) a combattere l’eresia catara. Questa tesi si appoggerebbe su uno scritto di Raffaello Mecca, ex preside del Liceo Classico di Potenza ed ex sindaco della città. Passo ad esporre la tesi di Mecca. Egli sostiene che nei primi cinquant’anni del secolo undecimo (1000-1050) sarebbero migrati in Lucania, provenienti dal Piemonte, “degli eretici scacciati dai loro luoghi natii per via dell’eresia e sospinti verso l’osso nudo dello stivale in terre infertili ed avare, colpiti dalla dannatio memoriae, perché di eresia nel Medio-Evo non si doveva parlare essendo essa fonte di discordia ecclesiale, civile e soprattutto politica”. Di che natura fosse “quest’eresia non sappiamo per via del silenzio delle fonti, ma si dové trattare di pauperismo di estrazione bogomilia dai monaci bulgari che di lì la importavano nei nostri lidi con prospettive ultramondane e con pretese di conoscenza delle scritture, di possesso di esse e diritto di lettura da parte dei semplici fedeli. Non valdesi, per l’incompatibilità temporale, forse catari, per lo stesso motivo, anche se altrove ho parlato di essi come di catari in regime della dipendenza di questi ultimi da quelli”. Sarebbe facile opporre subito a Raffaello Mecca la mancanza di documenti a supporto, ma lascio perdere l’obiezione e cerco di capire se e quanto questa ipotesi dell’eresia catara sia plausibile e probabile. La prenderò un po’ da lontano. L’eresia catara, hanno scritto alcuni storici di professione, ha i suoi inizi prima dell’Anno Mille. Secondo altri, trova le sue prime radici addirittura nel Concilio di Nicea del 325 d.C., quando, per la prima volta fa capolino il termine greco katharoi (puro) da cui discende il latino cathărus e l’italiano cataro. In ogni caso, pur ammettendo che l’eresia catara sia stata in fermentazione già prima del Mille, lo stesso aggettivo Catara/o nasce nel 1163 ad opera dell’abate Ecberto di Schönau, quanto meno se ci riferiamo al fenomeno cataro nato in Occitania, cioè nella Francia meridionale ad immediato ridosso del Piemonte e della Liguria. Tutti i fatti minimamente significativi del catarismo di derivazione occitana (dalla crociata contro gli Albigesi fino all’assedio di Montsegur ed anche al rogo di Verona) sono successivi alla vicenda terrena di Gerardo Della Porta, e non antecedenti, per cui anche l’ipotesi delle Crociate, che sicuramente potrebbe essere fantasiosa, sarebbe però certamente meno fantasiosa dell’ipotesi catara, se non altro perché i fatti storici a cui si riferisce sono contemporanei alla vita del nostro santo e non successivi. Alla debolezza documentaria dell’ipotesi catara, Mecca reagisce introducendo un’altra possibile fonte di prova; la traccia glottologica.
“Ciò detto, può il dato glottologico costituire una prova storica dell’identità ereticale e gallo-italiana della comunità potentina? Io affermo che il dato glottologico da solo costituisce una prova non documentale, ma “monumentale” del fatto e come prove documentali invoco il panegirico del vescovo Manfredi su Gerardo La Porta, vescovo e patrono della città, venuto qui per convertire una gioventù corrotta da pratica viziosa: “despem luxu, vitiis salutam, barbaro cultu rigidam juventam, nobile ultro studiis inemptis, format in artes” (inno di san Gerardo). La chiesa di Roma, conscia della presenza di eretici a Potenza, avrebbe inviato questo missionario che convertisse quella gioventù dal suo barbaro ‘cultu’, cioè dalle sue convinzioni ereticali, anche per il tramite d’una sana istruzione letteraria. E ancora invoco come prova i versi di Eustachio da Matera che nel “Planctus Italiae”, cantando il planctus “Potentiae”, lamenta la distruzione della città piena di gente indigena e lombarda”.
Alla luce di questi argomenti aggiuntivi, il quadro si arricchisce notevolmente ma, al tempo stesso, si complica senza che l’argomento del ‘barbaro culto’ possa riuscire, almeno ai miei occhi, a diventare decisivo. In quanto al trapianto di popoli lombardi (ma non necessariamente della attuale regione Lombardia perché si trattava piuttosto di popolazioni provenienti dal Monferrato e dalla ligure Val Bormida), il discorso è diverso. Ho già detto in altri articoli di questa rivista che, per quanto non ci siano altre prove oltre a quella di Eustachio da Matera, il fatto che egli sia stato testimone diretto delle vicende che si svolsero a Potenza in quel tempo lo rende abbastanza credibile. Però, stiamo parlando di due momenti storici ben diversi. La vicenda descritta da Eustachio si svolge tra il 1250 ed il 1268 (ed egli ne scriverà nel 1270), mentre la penetrazione catara a Potenza si sarebbe verificata prima dell’arrivo a Potenza di San Gerardo. Tra il 1000 ed il 1050, come dice Mecca, o molto più probabilmente dopo il 1050. Di quella penetrazione si è parlato anche per giustificare e spiegare la conformazione gallo-italica del dialetto potentino. Il discorso si dovrebbe fermare già a questo punto perché non solo non abbiamo documenti storici convalidanti l’ipotesi catara, ma non abbiamo nemmeno documenti storici convalidanti l’ipotesi della colonizzazione a Potenza di popolazioni piemontesi liguri e, di conseguenza e neanche potremmo dimostrare in quale momento e perché i potentini cominciarono a parlare il loro dialetto con le caratteristiche settentrionali rilevate dal filologo tedesco Gerhard Rohlfs. Si dovrebbe fermare subito qui il discorso perché in Basilicata non disponiamo di null’altro che non sia la teoria di Rohlfs e i versi di Eustachio, però non è detto…
In altri termini, quelle migrazioni non investirono né solo Potenza ed il quadrilatero potentino di Pignola, Picerno e Tito (oltre a Potenza), né solo la zona di Trecchina e del Golfo di Policastro, ma interessarono anche e soprattutto una vasta zona interna della Sicilia, la cosiddetta Sicilia lombarda. E’ proprio dalla Sicilia che ci arriva qualche aiuto per sbrogliare la matassa. Di popolazioni dell’Italia settentrionale ne vennero in Basilicata ed in Sicilia a più ondate e la prima ondata che arrivò in Sicilia non sembra fosse composta da eretici, ma da mercenari al seguito del condottiero Maniace (1038). Migrazioni molto più consistenti arrivarono in Sicilia (e devo ipotizzare anche in Basilicata) un po’ più tardi al seguito dei Normanni, nuovi conquistatori del Sud Italia. In Sicilia i normanni iniziarono così un processo di latinizzazione della Sicilia incoraggiando una politica d’immigrazione delle loro genti loro e cioè francesi (normanni, provenzali e bretoni), ma anche dall’Italia settentrionale (in primis, piemontesi e liguri) con la concessione di terre e privilegi. L’obiettivo dei nuovi sovrani normanni era quello di rafforzare il “ceppo franco-latino” che in Sicilia era minoranza rispetto ai più numerosi greci e arabo-saraceni. Molto meno sappiamo della Basilicata nella quale comunque la presenza sia greco-bizantina, sia saracena non è che non ci sia stata, ma non credo riguardasse Potenza in modo particolare. Anzi, noi sappiamo che Potenza dal 700 al 1000 fu baluardo della Chiesa romana e della cultura occidentale in Basilicata. La situazione della Sicilia e quella di Potenza dovevano essere abbastanza diverse. In Sicilia si spiega bene anche la provenienza monferrina, la stessa riguardante Potenza, perché molti monferrini seguirono Adelaide Del Vasto della casata aleramica del Monferrato quando andò in sposa a Ruggero, sovrano normanno. La Sicilia ha molta più documentazione di quel trapianto di popolazione, a differenza della Basilicata.
“Quanto alle motivazioni dell’immigrazione e alla cronologia relativa, secondo le ipotesi più accreditate – si legge nella voce della Treccani dedicata alle comunità gallo- italiche – l’insediamento in Sicilia si fa risalire all’XI-XIII secolo, quando i nuclei di origine altoitaliana furono trasferiti sull’isola, verosimilmente su richiesta della monarchia normanna, allo scopo di ripopolare o comunque di infoltire centri ritenuti strategici per il controllo di aree ancora caratterizzate, all’epoca, da una significativa presenza araba. L’infeudazione di alcune aree dell’isola alla nobiltà aleramica (legata ai Normanni da vincoli politici e matrimoniali) spiega bene la provenienza dall’area individuata, corrispondente alla sezione occidentale dell’antico Marchesato del Monferrato, all’epoca investito da una profonda crisi economica e demografica”. Nella voce Treccani su Adelaide Del Vasto si legge:
“Per la crisi che travagliava, nella seconda metà del sec. XI, il mondo feudale dell’Italia settentrionale, piccoli vassalli e servi erano indotti ad espatriare per cercare altrove migliore fortuna: notevoli furono le immigrazioni nella Sicilia, poiché i Normanni, sotto la guida di Ruggero I d’Altavilla, andavano smantellando il dominio arabo nell’isola (1060-1091) e creavano in essa un nuovo assetto politico”.
Quindi, c’è anche l’ipotesi della migrazione per motivi economici e non religiosi.
Questa sembra una spiegazione tagliata su misura per la Sicilia ma che lascia ancora insoddisfatti coloro che indagano sulla storia potentina. La stessa voce Treccani però, ad un certo punto, sembra venirci incontro in questo modo e con queste parole:
“Analoghe sono le ragioni del trasferimento, probabilmente in un periodo di poco successivo, di signori feudali di origine aleramica nella Basilicata dell’epoca normanna (XII sec.) e angioina (XIII sec.). Mentre la geografia degli insediamenti in Sicilia mostra chiaramente la volontà di tenere separate le ancora vitali comunità arabe della parte sudorientale dell’isola da quelle del settore occidentale, in Basilicata si trattava essenzialmente della necessità di controllare, attraverso sudditi fedeli insediati in zone di nuova conquista, aree di approdo come il golfo di Policastro o importanti direttrici lungo la via terrestre che congiungeva Napoli a Taranto”
Soffermiamoci su quest’ultimo rigo. La presenza aleramica quindi monferrina quindi ‘lombarda’ sarebbe stata causata dalla necessità, e questo mi sembra proprio il caso del trapianto di popolazione ‘lombarda’ a Potenza’, di controllare la via che da Napoli porta a Taranto e che ha come snodo decisivo proprio Potenza. Lo stesso ragionamento che nella antichità avevano fatto prima i Romani e poi i cristiani (e che poi, in età moderna e contemporanea, fecero i Francesi di Napoleone e poi gli Alleati del generale Alexander nella seconda guerra mondiale). Il controllo di Potenza è decisivo strategicamente per il controllo di vastissime zone del Sud Italia. In conclusione, non è detto che quelle migrazioni sia in Sicilia, che in Basilicata e quindi prima di tutto a Potenza siano avvenute tutte in un solo momento storico. Possono essere anche state diverse durante i due secoli del 1100 e del 1200 e soprattutto possono essere spiegate con altri motivi che non siano quelli delle persecuzioni religiose. E’ molto più probabile (perché qui siamo sempre nel campo delle probabilità e non della certezza storica acquisita e documentata inoppugnabilmente) che i motivi che causarono le migrazioni ‘lombarde’ o la migrazione lombarda a Potenza siano stati di natura militare o economica o tutte e due le motivazioni messe insieme, ma che siano state migrazioni di eretici mi sembra poco probabile. Ancor meno probabile mi sembra quindi l’ipotesi che San Gerardo Della Porta (che secondo le fonti Cattabiani e Campi si trovava già nelle nostre zone, spinto anche da altri membri della sua famiglia, poi chiamata a Piacenza dei Portapuglia) sia venuto a Potenza con lo scopo di cacciare o di perseguitare o di debellare eretici catari o d’altro tipo. Il che, tra le altre cose, sarebbe anche in contrasto con i tratti caratteriali di bontà, di mitezza, di cultura e di saggezza del nostro santo patrono.
PINO A. QUARTANA
Nella foro; la contessa Porzia de’ Tolomei, moglie del conte Carlo de Guevara, quarto conte Guevara di Potenza (Porzia è la Gran Dama al centro con l’abito nero).