In questo articolo riveliamo l’esistenza di casi letterari, per lo più sconosciuti o totalmente sconosciuti, almeno finora, che hanno a che fare con Potenza. Non si tratta della produzione di letteratura localistica, bensì di opere letterarie importanti per la storia della letteratura italiana ed internazionale nelle quali, in un modo o nell’altro, si parla di Potenza. Anche questi cinque casi appartengono dunque al patrimonio, un patrimonio che non finiamo mai di scoprire ormai da quasi tre anni e che a questo punto ce la sentiamo di definire ‘straordinario’, di Potenza.
IL FRAMMENTO DI EUSTACHIO
Eustachio da Matera (o da Venosa?) esercitava la professione di giudice a Venosa, al tempo degli Hohenstaufen, dell’Impero di Federico Ii di Svevia. Probabilmente ghibellino, si trovò coinvolto nella guerra che Carlo I d’Angiò condusse nell’Italia meridionale contro le truppe imperiali. La definitiva sconfitta di Manfredi determinò in Eustachio quel pianto per la patria, per l’Italia federiciana e per la definitiva sconfitta delle città legate alla casa sveva. Lo si evince dai frammenti del manoscritto napoletano che propongono versi dedicati a Napoli, Messina, Taranto, ma soprattutto dal più lungo frammento potentino, riconosciuto e accreditato come parte integrante dell’opera di Eustachio. Il più lungo frammento di Eustachio, quello dedicato a Potenza, si sofferma in modo particolare sulle fasi della guerra civile potentina tra Ghibellini e Guelfi che si ebbe come conseguenza della sfortunata rivolta antiangioina di una larga parte del’Italia meridionale e che fu capeggiata dalla aristocrazia ghibellina di Potenza. La rivolta, coraggiosa e temeraria, al tempo stesso, volse al peggio e Potenza fu la città che ne pagò maggiormente il prezzo; prima con una sanguinosa guerra civile, che si svolse all’interno della città che aveva osato sfidare direttamente il nuovo sovrano di Napoli. A Potenza nel 1268 divampò una guerra civile tra la fazione ghibellina ed aristocratica, fautrice diretta della rivolta, ed il popolo basso potentino, impaurito dalle minacce di vendetta angioina (che ci fu lo stesso), ed istigato dal vescovo di Potenza dell’epoca. Eustachio piange la distruzione della città di Potenza nel ‘Planctus Italiae’ di cui i versi su Potenza costituiscono la parte più famosa, quella che ha assegnato ad Eustachio un piccolo posto nella storia della letteratura italiana medioevale, anche se appartenente ancora alla tradizione latina e non del volgare.
PLANCTUS ITALIAE (Il Pianto d’Italia):
LA CRONACA DELLA GUERRA CIVILE POTENTINA FRA GHIBELLINI E GUELFI E DELLA DISTRUZIONE DELLA CITTA’
(Eustachio da Matera o da Venosa, 1270)
Inde potentini populi furor obruit omnes,
Qui tulerunt aquile signa verenda sibi.
Urbs est Lucanis girata Potentia lucis,
Fulta patrociniis, sancte Girarde, tuis,
5
Montibus et pratis. Gregis armentique feraces,
Et lini late predita cultat agros,
Lonbardis populis austera potensque colonis
Prestat vicinis diviciosa suis.
Auditis cedum furiis, victore minante,
10
Insanit populus, turbine turba ruit.
Iram victoris placet hoc placare furore,
Vindictam facere, cedere cede viros.
Nec minus inde suis iacuit post diruta muris,
Sed punita magi impietate sua.
15
Gullielmus cadit hic et Grassinella propago,
Cunque sua sequitur multa ruina domo:
Quem terrata vocat cum multis Bartholomaeus
Hic capitur, stringunt vincula stripta viros,
Captivosque omnes ducunt Acherontis in arcem.
20
Sed dedit alternas sors variata vices:
Nam comitiva manus Riccardus Sancta Sofia,
Castanee Enricus ac Venusina cohors
Eventu miro venerant Acherontis in hostes,
Captivosque vident inde venire viros.
25
Protinus agressi ductores marte, subire
Discrimen faciunt: hic fugit, ille perit.
Cum sociis miles fit liber Bartholomaeus
Instantique neci fata dedere moram:
Tunc perit ille Petrus Sapiencia Basilicate,
30
Campi maioris gentis iniqua ferens.
Proditur, et pretio pretiosi fedus amici
Auro fedatur. Fit scelerata fides:
Heu quantum scelus est funesta pecunia! Celum
Supponunt precio fulva metalla suo.
35
Annis millenis biscentum septuaginta,
Franco regnante, Romana sede vacante,
Exilii dampnum relevans dictata per annum
Explicuit mesta vates per singula gesta.
*****
Allora il furore del popolo potentino travolse tutti
quelli che portavano i vessilli dell’aquila imperiale.
La città di Potenza fu generata dai boschi lucani,
e sostenuta dalla tua protezione, o San Gerardo.
Fornita di monti e di prati a perdita d’occhio
coltiva campi fecondi di greggi ed armenti.
Austera di stirpe lombarda e potente di coloni
rifulge più ricca dei suoi vicini.
Udite le furie minacciose di stragi del vincitore,
impazzì il popolo, in un turbine la turba si precipita.
Con questo furore vorrebbe placare l’ira del vincitore,
vendicarsi, fare strage di nobili.
E questo è nulla rispetto al dopo,
quando giacque distrutte le sue mura,
in più punita per la sua empietà.
Guglielmo cade e la stirpe Grassinella
E alla caduta della loro casa segue molta rovina.
Viene preso quel Bartolomeo
Che chiama con molti alla rivolta,
Stretti vincoli stringono i nobili
E conducono tutti i prigionieri nella rocca di Acerenza.
Ma la sorte mutevole diede alterne vicende:
Infatti in compagnia di armati Riccardo di Santa Sofia,
Enrico di Castanea e la coorte venosina
Erano giunti,
evento straordinario, ai nemici di Acerenza.
Vedono quindi venire i prigionieri.
All’inizio i capi, entrati in battaglia,
Decidono di subire il discrimine:
uno fugge, un altro muore.
Un soldato con gli alleati rende libero Bartolomeo
E il fato offre un’attesa alla morte incombente.
Allora morì quel Pietro Sapienza di Basilicata,
Portando in campo l’iniquità della maggior parte della gente.
Viene tradito, e il patto della preziosa amicizia
Dall’oro sciolto.
La fede diventa scelleratezza:
Oh quanto grande delitto è il funesto denaro
I biondi metalli sottomettono anche il cielo al loro prezzo.
Nell’anno milleduecentosettanta,
Regnando il Franco,
essendo la sede romana vacante,
Alleviando le pene dell’esilio,
Dettando questi mesti fatti per anno ad uno ad uno
Eustachio scriveva a pochissima distanza dallo svolgimento dei tragici fatti. Scriveva nel 1270 ed i fatti si erano svolti nel 1268. Il tempo per Eustachio di riparare verso l’esilio, che probabilmente fu in Catalogna o in Germania. Se questo è l’interesse storico per quei fatti, non meno interessante è la vicenda letteraria che da quei fatti ha origine. Infatti, secondo Maria Teresa Imbriani, Docente di storia della Letteratura italiana presso l’Università della Basilicata, il ‘Planctus Italiae’ costituisce un interessante caso letterario
“Questi versi sono i più antichi, nella letteratura romanza, in cui si trovi riferimento a fatti storici ed è quantomeno singolare che riguardino una città rimasta a lungo periferica rispetto alle grande linee storiografiche. Non ultimo motivo d’interesse, è il contenuto privato, il riferimento ai singoli – cittadini e famiglie -, la descrizione della città, della popolazione, del sito di Potenza all’altezza della prima metà del XIII secolo. Un altro motivo d’interesse, e non secondario, è poi sotteso a tutto il Planctus Italiae: l’idea dell’Italia, come nazione da difendere, un’idea che nella nostra storia è molto più tarda”.
Il giudizio critico di Maria Teresa Imbriani in ogni caso decreta l’insorgenza di un caso letterario estremamente interessante e, al tempo stesso, estremamente importante e gratificante per Potenza.
“Quel frammento di Eustachio rendeva giustizia a una città periferica… le restituiva un ruolo nel Medioevo: anche a Potenza le guerre civili, i guelfi e i ghibellini di dantesca memoria, anzi, proprio Potenza testimone della fine dell’Impero, evento storico di portata epocale”. (Maria Teresa Imbriani, Appunti di Letteratura lucana, edito dal Consiglio regionale della Basilicata, Potenza, 2000, pagine 218 e Potenza Capoluogo; 1806-2006 in ‘La cultura letteraria’, Napoli-Potenza, 2008).
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IL CANZONIERE DI ESTUNIGA
La raccolta di poemi conosciuta nella letteratura spagnola del Rinascimento come Cancionero de Estuniga (Canzoniere di Estuniga) è una collezione di centosessanta poesie e di quaranta autori che si incontrarono tra il 1460 e il 1463 a Napoli. Benché raccolte dopo la morte di Alfonso V il Magnanimo, le composizioni appartengono ad autori che hanno vissuto e coltivato la poesia durante il suo regno, così che il libro di poesie rappresenta, in particolare, lo spirito letterario di quella corte, ad eccezione di un paio di composizioni che si riferiscono ad eventi del Regno del successore. Tutti i componimenti poetici si occupano di eventi napoletani e si riferiscono al Magnanimo, alla moglie Maria, alla sua amante Lucrecia d’Alagno, alla figlia Leonor, ed ai grandi nobili nonché ai condottieri che lo accompagnarono nelle sue spedizioni italiane, agli illustri rappresentanti della nobiltà napoletana ed alle belle donne che partecipavano a feste e serate nonché ad altri incontri di gala indetti da una corte, quella aragonese di Napoli, che sosteneva con forza le lettere, le arti e gli intellettuali ispanici e italiani. In tal modo, anche la corte Aragonese di Napoli partecipava e contribuiva al Rinascimento italiano, allora allo stato nascente. La corte di Alfonso era naturalmente plurilinguista; si incontravano lì spagnoli, aragonesi ed italiani. Questo plurilinguismo è evidente nello stesso libro di poesie, dove, oltre alle composizioni spagnole, sono raccolti alcuni poemi di Carvajal, scritti in italiano con dialettalismi napoletani. Detto ciò, è veramente interessante sapere ciò che sto per rivelare (per la prima volta in ambito potentino e basilicatese). Il destinatario della raccolta non era re Alfonso il Magnanimo, bensì un suo altissimo dignitario di corte, ma non solo un altissimo dignitario di corte, quanto il suo principale o sicuramente uno dei primissimi suoi condottieri d’arme ed uno dei suoi migliori diplomatici. Chi era dunque il referente di tutti questi poeti che hanno scritto poesie per il Canconiero de Estuniga? Chi era la figura unica ed eminentissima del Regno che riusciva ad assommare in sé tutte le qualità del governatore, del condottiero di gran valore, del diplomatico raffinato ed infine del grande organizzatore e mecenate culturale? Ebbene, costui era Inigo de Guevara, capostipite dei conti Guevara di Potenza. Fu lui a commissionare i testi, fu lui a pagare, fu lui ad offrire ai Re d’Aragona del trono napoletano tutto questo prestigio culturale. La cosa è incredibilmente interessante per Potenza. Non solo perché si trattava del primo conte Guevara di Potenza, ma anche perché questa vicenda fa capire ancor di più quale sia stato il livello dei conti Guevara, signori di Potenza dal 1444 fino al 1604, i conti del periodo rinascimentale. Dei Guevara a Potenza ho già detto quasi tutto su ‘Potentia Review’. Per esempio, ho detto che solo per due condizioni (due condizioni assenti) non si può dire che i conti di Potenza siano stati al pari delle piccole e grandi corti rinascimentali, che in quel periodo fiorivano in tutta Italia; la corte dei Medici a Firenze, degli Estensi a Ferrara, dei Gonzaga a Mantova, degli Sforza a Milano, dei Montefeltro ad Urbino, la corte papale di Roma, la corte aragonese e poi spagnola di Napoli, appunto, la piccola corte dei Malatesta a Rimini, la corte degli Orsini a Bracciano e qualche altra. Quindi, c’erano anche piccole corti minori. Vista la ormai accertata grandezza dei suoi feudatari Guevara, cosa impedì che nella molto periferica e piccola Potenza si insediasse una, quand’anche minuscola, corte rinascimentale? Il mio punto di vista è lo stesso di quei pochissimi autori che si sono occupati del 1400 e del 1500 a Potenza, a cominciare dagli autori del volume ‘La città nella storia d’Italia: Potenza’ (pagine 186, Laterza editori, Bari/Roma, 1997 cfr. pag. 37). I due fattori mancanti erano: 1) la minore autonomia di una Contea rispetto ad uno Stato indipendente, quand’anche molto piccolo e: 2) gli impegni regi e militari dei conti Guevara (basti pensare che i conti Guevara di Potenza, tra le altre e tante cose, hanno ricoperto quasi sempre la carica di Gran Siniscalco, una delle sette più importanti cariche del Regno). Ma la scoperta del Canconiero de Estuniga e del ruolo avuto in questa grande vicenda culturale, anche di mecenatismo (Inigo de Guevara pagò tutto di tasca sua e non con i fondi del sovrano e si trattò di uno sforzo finanziario non da poco), dal primo conte Guevara di Potenza, mi fa pensare che oltre a quelle due cause, ce ne furono altre due. Ovviamente, sto elaborando ipotesi, ma si tratta di ipotesi altamente plausibili. La terza causa del mancato passaggio da signoria e da contea di provincia a piccola corte rinascimentale fu dovuta al fatto che la grande vena rinascimentale era propria soprattutto di Inigo. E’ vero che durante la signoria dei Guevara a Potenza ci fu la formazione di un piccolo cenacolo intellettuale, ma esso venne già molto tempo dopo con Alfonso II, cioè circa nel 1580 e non nel 1450-1460 per cui non si può parlare certamente di corte artistica e letteraria. E quindi occorre vedere cosa faceva Inigo in quel periodo. E ora lo abbiamo visto; animava culturalmente per conto del Sovrano la corte di Napoli rendendola, o contribuendo a renderla, una delle corti del Rinascimento italiano. E’ più che probabile che, avendo già quel ruolo, o quasi, anche se non in nome e per conto proprio, presso uno degli Stati più importanti d’Italia e d’Europa egli non avesse le necessarie motivazioni per fare della sua contea potentina una piccola corte rinascimentale, avendo appunto già addirittura Napoli a sua disposizione. Il quarto motivo per cui ciò non avvenne è che Inigo de Guevara quando arrivò a Potenza, nella contea che gli era stata assegnata dal Re aragonese di Napoli, trovò la città in condizioni sconfortanti per cui potrà aver pensato che la vena da principe rinascimentale che serviva alla città, in quel momento ed in quelle condizioni, non era di certo quella artistica o letteraria, ma quella architettonica ed urbanistica. E così, non facendosi forse scoraggiare dal quadro avvilente che aveva trovato, cominciò a porre mano ad un vasto programma di lavori e di opere architettoniche, alcune delle quali molto belle e degne già in sé del marchio ‘rinascimentale’; una per tutte, il bellissimo portale della Chiesa di san Francesco.
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‘LO CUNTO DE LI CUNTI’ DI GIOVAN BATTISTA BASILE
“lo quale, puostese n’coppa a la fenestra, cantaie co tanta trille, gargariseme e passavolante, che pareva no compa’ Iunno, ne passava Pezzillo e se lassava dereto lo Cecato de Potenza e lo Re de l’aucielle”
(Giovan Battista Basile, ‘Cunto de li cunti’ o ‘Pentamerone’, Einaudi editore, Torino, da ‘Ntroduzione’ a cura di Michael Rak).
L’opera letteraria ‘Lo cunto de li cunti’, detto anche il ‘Pentamerone’ (sulla scia del ‘Decamerone’ di Boccaccio) è uno dei capolavori letterari del 1600 italiano e del Barocco, un’opera di cinquecento pagine che ha ispirato altri grandi scrittori italiani ed europei. E’ un’opera composta da una Introduzione e da cinquanta racconti; dieci per ognuna delle cinque giornate in cui è divisa la trama narrativa. Giovan Battista Basile, oltre ad ambientare le cinquanta novelle in diverse località del Napoletano e della Campania, lo sfondo naturale delle narrazioni, inventò anche un personaggio di Potenza; il Cecato di Potenza. Si tratta dell’unico personaggio lucano della grande opera in questione e sicuramente Potenza è l’unica località della Basilicata che viene citata nel capolavoro. Sarebbe quindi il caso di soffermarsi a demolire l’ennesimo luogo comune che infesta la cultura in Basilicata. Lo farò molto brevemente. E’ in giro già da anni la credenza che il Basile abbia ambientato diversi suoi racconti in varie località della Basilicata. Ebbene, non è vero. Le congetture che a questo proposito sono state fatte sono, appunto, solo congetture. Non c’è alcuna prova e non c’è alcuna menzione chiara ed esplicita di personaggi e località della Basilicata, se non appunto quella del ‘cecato di Potenza’. Di certo c’è solo che il Basile si trattenne per qualche tempo presso la residenza del duca Galeazzo Pinelli ad Acerenza, ma nel ‘Cunto de li cunti’ Acerenza non compare, non viene mai citata o nominata. Tra l’altro, del ‘Cunto de li cunti’ non esistono i manoscritti originali e non è nemmeno vero che i nomi dei luoghi siano stati tutti artefatti. Il Basile cita diversi posti e luoghi della Campania tutti con il loro nome esplicito ed ancora attuale. Morale della favola (ed è proprio il caso di dire della favola, trattandosi di un capolavoro quasi favolistico che ha ispirato i grandi scrittori di favole come i Grimm, ad esempio); in Basilicata è venuta davvero l’ora di essere più seri e di non spacciare forzature per abbellire il profilo dei propri paesi. Purtroppo, non è l’unico caso e, temo, non sarà l’ultimo.
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LA DEMISTIFICAZIONE DI UNA NOVELLA DI PIRANDELLO
C’è un po’ di Potenza anche in Pirandello, esattamente nella novella “Se” contenuta nel volume ‘Novelle per un anno’. In essa si racconta la storia di Lao Griffi che ha prestato servizio (sembra come militare di professione) al tredicesimo reggimento di fanteria di stanza a Potenza. In Piazza delle Terme di una imprecisata città, Valdoggi nota che un signore lo sta scrutando ossessivamente. Si guardano a lungo e poi l’altro gli si avvicina e si presenta: “Sono Lao Griffi”. Ti ricordi di quando a Potenza insieme prestavamo servizio? Griffi ha una personalità abbastanza disturbata e disturbante. Ha l’ossessione del destino (se avessi fatto quello e non quell’altro, se…), di un destino cattivo che gli avrebbe tarpato le ali impedendogli un trasferimento di servizio. Griffi voleva essere trasferito da Potenza ad Udine oppure a Bologna per godere di una vita più bella. Udine vicina al mondo mitteleuropeo sarebbe stato il massimo sogno per lui, ma anche Bologna, che avrebbe dato accesso facile a tutte le bellezze del centro Italia, sarebbe stata per Griffi una meta agognata. Invece no. I suoi superiori decidono di lasciarlo vita natural durante a prestare servizio a Potenza. Su questo semplice artifizio letterario si è ricamato sopra da parte di qualcuno, ironizzando sul ruolo che Potenza aveva fino a qualche decennio fa come luogo di punizione burocratica come per dire: ‘Guarda che ti trasferisco in Sardegna’. Più o meno lo stesso. Forse Griffi pativa il fatto di servire la Patria in un posto piccolo e fuori dai grandi circuiti, ma non c’era solo quella motivazione, non c’era solo quella ossessione. Non si è considerato (volutamente?) che Griffi aveva ben altro ancora dentro a roderlo che un vago desiderio di visitare luoghi rinomati o di vivere una vita più evoluta a Udine o a Bologna. C’era dell’altro dietro l’angoscia di Griffi. Ben altro. Adesso lascio la parole al personaggio ed a Pirandello:
“Sí, lo aveva prima piantato, come si dice, per me: per il simpatico ufficialetto… E guarda, Valdoggi! Se quello sciocco non si fosse allontanato per un anno da Potenza, dando cosí agio a me d’innamorarmi per mia sciagura di Margherita, a quest’ora quei due sarebbero senza dubbio marito e moglie, e probabilmente felici… Sí. Li conoscevo bene tutti e due: erano fatti per intendersi a meraviglia. Posso benissimo, guarda, immaginarmi la vita che avrebbero vissuto insieme. Me l’immagino, anzi. Posso crederli vivi entrambi, quando voglio, laggiú a Potenza, nella loro casa… So finanche la casa dove sarebbero andati ad abitare, appena sposi. Non ho che da metterci Margherita, viva, come tante volte, figúrati, nelle varie occorrenze della vita l’ho veduta…Chiudo gli occhi e la vedo per quelle stanze, con le finestre aperte al sole: vi canta con la sua vocina tutta trilli e scivoli. Come cantava! Teneva, cosí, le manine intrecciate sul capo biondo. “Buon dí, sposa felice!” – Figli, non ne avrebbero, sai? Margherita non poteva farne… Vedi? Se follia c’è, è questa la mia follia… Posso veder tutto ciò che sarebbe stato, se quel che è avvenuto non fosse avvenuto. Lo vedo, ci vivo; anzi vivo lí soltanto… Il se, insomma, il se, capisci?”.
Tacque un buon tratto, poi esclamò con tanta esasperazione, che il Valdoggi si voltò a guardarlo, credendo che piangesse:
“E se mi avessero mandato a Udine?”.
Griffi voleva fuggire da una città, dove non aveva avuto fortuna e che gli ricordava cose molto spiacevoli capitate nella sua vita; un inganno muliebre (sposarsi con l’ufficialetto forestiero, spesso dell’Italia settentrionale; un classico e non solo a Potenza), un matrimonio fallito (quello con la potentina Margherita), un tradimento (quello di Margherita con il suo ex fidanzato, divenuto, dopo il truffaldino matrimonio con Griffi, il suo amante) ed infine un omicidio (quello della povera Margherita, sposa fedifraga ed ingrata sì, ma non meritevole di morte). A Potenza, città militare per molto tempo, devono esserne successe diverse di queste storie. E comunque Pirandello ha portato alla notorietà letteraria Potenza e la storia infelice di Margherita e di Lao. E la notorietà letteraria può essere goduta senza la forzatura mistificatrice.
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L’ASSE DENVER – POTENZA
John Fante è stato un grande scrittore Italo-americano di prima generazione. Nacque a Denver, Colorado (USA), l’8 aprile del 1909 e morì a Los Angeles l’8 maggio 1983. Suo padre, Nicola Pietro era nato in un piccolo paese dell’Abruzzo, Torricella Peligna e all’età di vent’anni aveva deciso di tentare la fortuna altrove, così come facevano moltissimi giovani contadini in quella fase storica. Inizialmente sbarcò in Argentina dove, però, la crisi economica non gli permise di sopravvivere per più di un anno; fece dunque ritorno in Italia ma lì, come si rese presto conto, non gli restava più nulla. Il rientro in patria, dunque, durò poco per Nicola Fante che si imbarcò nuovamente, questa volta per New York dove arrivò il 6 dicembre 1901. La vita in quella città si rivelò piuttosto dura per un giovane immigrato, per questo dopo poco tempo Nick (così come verrà sempre chiamato nella sua nuova vita americana) partì per il Colorado e nel quartiere italiano di North Denver ritrovò suo padre; nel 1907 anche la madre e la sorella li raggiunsero e la famiglia si riunì.
Nello stesso quartiere in cui vivevano i Fante si era da poco trasferita la famiglia Capolungo, originaria di Potenza, di cui faceva parte una ragazza cattolica molto devota che nutriva il desiderio di diventare suora. Il suo nome era Mary e il suo destino si rivelò ben diverso rispetto a quello che si era figurata, infatti conobbe Nick e i due si sposarono il ventinove giugno del 1908. Dopo aver avuto John la famiglia si allargava, con Pete nato nel 1911 e Josephine nata nel 1914, e così i Fante si spostarono da Denver a Boulder nel 1915. Quell‟autunno John si iscrisse alla prima elementare del Sacro Cuore, nonostante i suoi genitori spesso non riuscissero a pagare la retta mensile di due dollari dal momento che Nick li finiva sempre comprando sigari costosi o perdendo qualche mano a poker. Trascorse così l‟infanzia di John Fante, all‟insegna di una costante povertà e di un difficile rapporto con il padre, fattori che lo segneranno profondamente e che costituiranno un punto cardine della sua scrittura.
Terminato il periodo di studi del Sacro Cuore, nel 1923 Fante entrò alla Regis High School di Denver, istituto di gesuiti dove si conduceva una vita quasi monastica e occasione in cui John affrontò per la prima volta il distacco dalla famiglia; ma nemmeno lì la vita si rivelò tanto facile, la scuola osservava regole piuttosto rigide, era necessaria disciplina e la direzione prevedeva addirittura punizioni corporali. Fante otteneva ottimi voti soprattutto in campo sportivo, nel football e nel baseball. Iniziò inoltre a frequentare la scuola di boxe appena nata all‟interno del Regis e, insieme a tutto questo, ebbe anche un primo approccio con la scrittura, attraverso un quaderno di appunti su cui annotava i resoconti delle partite e altro (in seguito lo sport sarà spesso argomento letterario per Fante).
Fu proprio a quel punto che John considerò per la prima volta seriamente l‟ipotesi di dedicarsi alla scrittura. Nell’autunno del 1928 era stato riammesso all’università, e si era iscritto a ben cinque corsi, inclusa lingua e letteratura inglese. […] Sempre più si convinceva che la scrittura era il suo pane, ma il venticinque marzo del 1929 fu espulso per non aver conseguito il minimo complessivo dei voti. Mi fermo qui con la biografia. Pian piano, pur già essendo incardinato sul piano di una vita da emarginato, John Fante diventa uno scrittore e col tempo sempre più uno scrittore di successo. Della particolare categoria degli scrittore maledetti al quale apparteneva anche Charles Bukowski. Ma c’è di più. Entrambi si muovono sullo stesso sfondo; la Los Angeles degli emarginati, degli irregolari, delle vite perdute e che non valgono granché e le loro storie sporche, molto sporche, dirty…
E John Fante, figlio di mamma potentina, viene prima di Bukowski. Anzi, Buwkoski riconosce il suo grande debito verso John Fante per via di Bandini, l’alter ego di Fante:
“Rimasi fermo per un attimo a leggere, poi mi portai il libro al tavolo con l’aria di uno che ha trovato l’oro nell’immondezzaio cittadino. Le parole scorrevano con facilità, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un’altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l’insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco, finalmente, uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità. Quando cominciai a legger quel libro mi parve che mi fosse capitato un miracolo, grande ed inatteso. Ero socio della biblioteca. Presi in prestito il libro e me lo portai in stanza. Mi sdraiai sul letto e ripresi a leggerlo,ma prima ancora di finirlo capii che l’autore era riuscito ad elaborare uno suo stile particolare. Il libro era Chiedi alla polvere e l’autore era John Fante, che avrebbe esercitato una influenza duratura su di me […] Non molto tempo averlo scoperto, mi misi a vivere con una donna. Beveva come una spugna, anche più di me ed assieme facevamo delle litigate feroci, durante le quali le gridavo “Non chiamarmi figlio di puttana! Io sono Bandini, Arturo Bandini”.
Bandini era il personaggio letterario molto autobiografico di John Fante.
John Fante non c’entra con Potenza solo per via della madre o perché nacque a Denver, l’importante capitale del Colorado nonché la città degli USA più strettamente correlata a Potenza ed alla antica emigrazione potentina (ne parlerò in un articolo specifico più in là), ma anche perché, come scrisse tempo fa il critico letterario del quotidiano ‘Repubblica’, era riuscito a posizionare Potenza sopra Napoli. Questo lo fece esattamente in uno dei suoi più bei romanzi: “1933, A Bad Year”, poi noto a noi italiani nella edizione in italiano dal titolo “Un anno terribile”, il cui protagonista principale si chiama Dominic Molise, un classico nome da paisà ‘broccolino’ o da piccolo gangster e quella era l’immagine o lo stereotipo che agli italiani, diciamo pure ai meridionali, emigrati di prima generazione negli USA, veniva implacabilmente affibbiata.
“Le grida di Bettina fecero uscire mia madre dalla stanza da letto, con i capelli spessi e marroni, che le arrivavano alla vita, e con le mani strette sulla camicia da notte. Gli occhi erano verdi, enormi, e perennemente stupefatti. Era nata a Chicago, ma era di origine italiana e in realtà era contadina come la nonna, segnata anche lei dalla solitudine, straniera in un modo che non era possibile descrivere, non era italiana e ancora meno americana, una fragile disadattata. La sua famiglia era di Potenza, una città sopra Napoli, piena, a quanto si diceva, di rossi. Secondo nonna Bettina i potentini, subito dopo gli americani, erano i più ridicoli al mondo. Non era mai stata a Potenza a vedere con i propri occhi, ma per tutta la vita aveva sentito delle strane storie sul loro conto. Dal momento che gli abruzzesi avevano bisogno di avere un luogo da giudicare inferiore al loro, consideravano Potenza con lo stesso disprezzo che i calabresi avevano per i siciliani, proprio come i napoletani ridicoleggiavano tutto quello che era a sud di Napoli, e i romani guardavano dall’alto in basso i napoletani, mentre i fiorentini non davano peso ai romani. I potentini erano per gli abruzzesi come una specie di fonte di barzellette, come se vivessero in catapecchie e fossero tutti nani. Un semplice accenno a Potenza e mio padre ammiccava piena di condiscendenza. Aveva sposato la figlia di un abitante di quella città, che Dio l’aiutasse, ma era sempre pronto a sorridere con pazienza davanti a questa strana svolta degli eventi, e felicissimo di perdonare la moglie per i genitori che aveva. Mentre ascoltava fino all’ultimo lamento fuori dalla porta di Bettina, mia madre faceva schioccare la lingua con pazienza, perché gli abitanti di Potenza a loro volta disprezzavano gli abruzzesi”.
“Non è cattiva, povera vecchierella. La sua vita è stata così difficile … tutte così quelle persone”.
“Quali persone?”.
“Gli abruzzesi. Non c’è da meravigliarsi che siano rozzi e che abbiano un caratteraccio. Non hanno altro che rocce, qualche capra e niente luce elettrica. Come la Calabria, la Sicilia e tutti quei posti poveri”.
Non c’era mai stata. Non era mai stata in nessun posto oltre che in un condominio a Chicago.
“Come lo sai?”.
“Lo sanno tutti. Si capisce da come si comportano, gridano, bestemmiano, sono violenti. Ce l’hanno nel sangue. Guarda tuo padre”.
Storie comuni a quei tempi. Drammi della miseria, della identità ferita e perduta per sempre, di una assimilazione per forza di cose assolutamente impossibile per gli emigrati di prima generazione, dato anche il livello dei tempi e le condizioni bestiali in cui gli immigrati italiani (e specialmente meridionali) negli USA versavano. La dialettica dei miserabili che si sentono gli uni nei confronti degli altri superiori. Comunque, John Fante parlando della madre ha anche lui fissato Potenza nelle sue grandi pagine della letteratura. Della letteratura americana, in questo caso.
P.S. Il figlio di John Fante, Dan Fante, anch’egli noto scrittore americano, qualche anno fa si è recato a Potenza per conoscere la nostra città.
PINO A. QUARTANA
Nel collage; a sinistra Luigi Pirandello, a destra John Fante