DI WOODCOCK, POTENZA, PASOLINI E DI ALTRE COSE

Martedì 30 ottobre il quotidiano ‘Il Giornale’ di Milano è uscito con un articoletto interessante dal titolo: ”Ora Woodcock vuole tornare a Potenza” in cui si scriveva cheva detto, a favore del possibile rientro lucano del pm, che un peso potrebbe averlo la stima dell’attuale procuratore capo di Potenza che con Woodcock ha lavorato insieme alla DDA di Napoli”.

Non mi intratterrò sul fatto, vero o no, che il notissimo pm anglonapoletano (ma anche un po’ potentino) senta nostalgia, o meno, della Procura di Potenza, né sul fatto che la sua azione professionale sia stata di successo, o meno (francamente sui suoi presunti flop ci andrei molto cauto). E neppure mi interessano di lui le storie o i gossip di cui la stampa nazionale si è nutrita (per esempio, il suo legame sentimentale con la Sciarelli, stranamente anche lei associata spesso a vicende potentine nel senso che ha speso molto spesso il nome della città, anche se per una vicenda molto triste, purtroppo, capitata nella nostra città). Di Woodcock mi interessa, almeno in questa sede, unicamente un quarto aspetto; il suo legame con Potenza. O, per essere ancor più precisi; la sua associazione con l’immagine di Potenza e reciprocamente l’associazione della immagine di Potenza con Woodcock. Se tornerà a Potenza, il caso si riproporrà …

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Quale caso? Il caso, come ebbe a dire ed a scrivere uno scrittore (ma anche giornalista e critico letterario del ‘Corriere della Sera’) bene introdotto nella società letteraria italiana come Antonio D’Orrico, di “New Woodcock City”. Anni fa D’Orrico ne scriveva già (esattamente nel Magazine del Corriere della Sera del 12 aprile 2007) in un articolo-reportage su Potenza, un articolo molto divertente, fra l’altro. Divertente perché D’Orrico immaginava un colloquio con Woodcock (solo immaginario perché i magistrati, in genere, non possono rilasciare interviste) che aveva come scopo proprio quello di capire quale sia (stato) il rapporto fra il celebre magistrato (che ha acquisito la celebrità proprio a Potenza) e la città (simpaticamente ribattezzata New Woodcock City).

“E dunque essendo venuto a Potenza (via Napoli Capodichino e poi in macchina facendo un pezzetto della famigerata Salerno-Reggio Calabria, in tutto 4 ore da Milano), e volendo raccontare lo stato d’animo della città di Potenza, diventata capitale della giustizia italiana e di un certo demi-monde del glamour (caso agenzia fotografica Corona’s, presunti ricatti a vip fotografati in momenti no, sfilata davanti al palazzo di giustizia di personaggi come Fernanda Lessa, Nina Moric, la Lecciso, Raoul Bova, Totti e Gilardino, Diego Della Valle ecc.) e non potendo intervistare il pm più celebre d’Italia dai tempi di Di Pietro, come posso fare? Semplice: deponendo anche io in veste di persona informata dei fatti. Verbalizziamo pure”.

Nell’intervista immaginaria il pm chiede al critico letterario dove abbia trovato alloggio e D’Orrico (sempre nella finzione letteraria) così risponde:

“ Al Grande Albergo, in centro, lo stesso dove sono passati alcuni dei vip di Vallettopoli, Nina Moric, per esempio, che lì ha consumato una enorme insalata non condita disdegnando, per questioni di linea, i meravigliosi e unici peperoni cruschi vanto della gastronomia locale. Com’è l’albergo? Carino e confortevole con un avveniristico ascensore trasparente dove dal settimo piano domini la già altissima Potenza (819 metri sul livello del mare). Il personale dell’albergo è gentilissimo e tutti i potentini sono molto gentili tanto che ho avuto una specie di shock provenendo dalla città più scortese d’Italia (Milano, certo, mi virgoletti pure è la verità). Se sono in grado di citare un esempio di questa gentilezza potentina e alberghiera in particolare? Certo, la storia dei Cavalieri di San Maurizio. Se li ricorda, dottore? Pallidi, vestiti di nero, sono una specie di guardia ideale di Vittorio Emanuele di Savoia e vennero a Potenza ai tempi in cui il principe era qui detenuto e cioè agli inizi dell’inchiesta e dello scandalo da cui scaturisce Vallettopoli. Bene, i sanmauriziani alloggiarono al Grande Albergo e se ne andarono insalutati ospiti. Allora furono sollecitati, con estrema gentilezza, a corrispondere quanto dovuto per il soggiorno. La loro risposta fu: “Il principe non intende regolare il conto dell’albergo perché la città di Potenza gli è venuta in o-oodio”.

“Lei è già stato in precedenza a Potenza?” gli chiede Woodcock e D’Orrico replica:

“Sì, una volta da bambino e mi sembrò New York, stessa skyline. Perché ride? Una volta la stessa cosa la disse Pasolini: Potenza somiglia a New York. E pure Guido Piovene scrisse nel suo celebre e bellissimo Viaggio in Italia (pregherei di allegare agli atti la pagina relativa): «A Potenza si giunge da plaghe nude, e d’un tratto si vede sorgere una fungaia di alti caseggiati moderni, a cui la posizione in altura dà un illusorio aspetto di grattacieli». Era il 1957, mezzo secolo fa esatto, quando Piovene scrisse queste parole. La dichiarazione di Pasolini è successiva. Quindi Pasolini con molta probabilità copiò da Piovene ma eviterei adesso di aprire un fascicolo sul presunto plagio pasoliniano in vista, dopo Vallettopoli, di una futura Scrittoropoli: gli scrittori si copiano sempre tra di loro”.

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E già, già … Pasolini. Anche Pasolini. Di Pasolini non si sapeva questo fatto cioè che fosse stato anche a Potenza. Sottolineo anche. La cosa stupirà senz’altro molti ma Pasolini conobbe anche Potenza. Di nuovo questo fastidioso anche. Anche a Potenza vuol dire che non conobbe solo Matera. Nella vulgata basilisca di questa regione, la vulgata culturale prevalente, Pasolini è associato, quasi ope legis, a Matera e nessuno avrebbe mai sospettato che fosse stato anche a Potenza. Ma dopo aver girato invano la Palestina per cercare la location dove reperire gli sfondi per girare il suo Vangelo secondo Matteo del 1963 (poi, trovati a Matera), quale interesse avrebbe mai potuto spingerlo a visitare anche Potenza, dove il suo fugace passaggio, al contrario di Matera, non ha lasciato la benché minima traccia? Posso sospettare che solo un motivo di interesse abbia potuto spingerlo a visitare brevemente anche Potenza; la modernità nel cuore di una regione arcaica. In questa regione, la Basilicata, cioè l’unico posto al mondo dove avrebbe ricreato le stesse condizioni e gli stessi scenari della Palestina di 2000 anni fa, i termini della vexata quaestio, nel frattempo, si stavano addirittura rovesciando. Così come Matera fino alla fine degli anni ’50 del 1900 era lo scandalo, la vergogna, poi, man mano che i grandi paradigmi culturali andavano mutando fino al totale loro rovesciamento, lo scandalo non era più Matera, non era più il simbolo della arretratezza arcaica più desolante all’interno di un paese europeo e sulla via della industrializzazione di massa come l’Italia, ma diventava Potenza, cioè il simbolo della modernità all’interno di una regione arcaica, dove, però, e del tutto incredibilmente, era l’arcaico che diventava il fattore del successo culturale. Sulla modernità e sulle città moderne, Pasolini aveva tutte le idiosincrasie possibili. Ma l’immagine di Pasolini che detestava New York e la modernità, alla lunga, si rivelò falsa o comunque datata. Poco dopo essere stato a Gerusalemme, scartata a favore della location Matera perché ormai troppo moderna o modernizzata, Pasolini fece qualcosa di imprevedibile; decise di visitare New York.

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Perché Potenza ha dimenticato quella visita di Pasolini? Perché non ne ha fatto, come invece è successo a Matera, un leit motiv trascinatosi per decenni, un motivo di vanto o un elemento di identità culturale? Credo per lo stesso motivo per cui ha rimosso, come si può dire nel caso più soft, o per cui ha manifestato sempre sostanziale estraneità alle tematiche leviane (anch’esse elemento identitario della Basilicata e di Matera in modo particolare), anzi, diciamolo pure a chiare lettere, per cui ha spesso mostrato fastidio per quelle narrazioni (e non proprio a torto). Anche Levi  era stato qualche volta a Potenza, come ci ha raccontato Giovannino Russo, l’ultimo meridionalista, nel suo libro “Lettera a Carlo Levi” (Editori Riuniti, Roma, 2001). In quel libro si vede una foto di Giovannino Russo insieme a Carlo Levi in Piazza 18 Agosto. Per completare il trittico della narrazione della cultura lucana e/o basilicatese del secondo dopoguerra manca ancora una terza figura; quella di Rocco Scotellaro. A dire il vero, Potenza con Scotellaro ebbe un atteggiamento diverso. Lo stesso Russo, originario di Salerno ma cresciuto e formatosi a Potenza, fu compagno di liceo a Potenza di Rocco Scotellaro e il poeta tricaricese visse a Potenza per un certo periodo subendo finanche i disagi del bombardamento alleato. Scotellaro si può dire che nutrisse affetto per Potenza e a Potenza dedicò una poesia (“Sera potentina”). Eppure … eppure … nonostante ciò, Potenza non non ha serbato o coltivato né la memoria né, tanto meno, il mito di Levi, di Scotellaro e di Pasolini e nemmeno la memoria dei rapporti intercorsi tra la città e questi tre grandi intellettuali. Tutto il contrario di Matera, che, invece, su quei tre nomi ha costruito la sua memoria storico-culturale o, se vogliamo, quella parte della sua memoria di cui va più fiera. Torna la domanda cruciale; perché? Ma prima di tentare una risposta o una ipotesi di risposta non si può neppure dimenticare un altro dato singolare e cioè che nel “Cristo si è fermato ad Eboli”, in quel libro che ha parlato al mondo della Lucania in una specie di messaggio universale che abbracciava idealmente tutte le Lucanie del mondo, Potenza, caso davvero strano, apparentemente stranissimo e singolare, non c’è. Nel suo grande libro Levi non parla mai di Potenza. In fondo, la grande assente in quel libro è solo Potenza. Perché? La domanda merita una trattazione del tutto a parte. Potenza fu benevola con Scotellaro ed a lui molto vicina, ma fu vicina solo all’uomo Scotellaro (per esempio, furono i potentini a scagionarlo ed a permettergli di ritrovare la libertà), ma mai fu empatica con ciò che Scotellaro ha rappresentato per il resto della regione. Mai fece proprio il mito culturale, mai il simbolo politico rappresentato dal poeta di Tricarico, pur con tutta la grande benevolenza che nutriva nei suoi confronti. Anche qui; perché? Si vanno affollando tanti perché che invocano tante risposte. Ma ci sono queste risposte? Sì, ci sono, ci sono senz’altro, ma ne riparleremo in una sede separata, ne riparlerò in una prossima occasione. Torno, dunque, a Pasolini.

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L’incontro impensabile fra Pasolini e New York è raccontato da Francesca Berardi sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore Cultura del 10 settembre 2015:

“E’ la fine dell’estate del 1966 e Pasolini si trova in America per la presentazione di due film ’Accattone’ e ‘Uccellacci e Uccellini’, al festival di Montreal in Canada. Prima di tornare in Italia trascorre dieci giorni a Manhattan, una permanenza tanto breve quanto intensa, che accende un amore che qualcuno direbbe impossibile. “Quanto mi dispiace partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambino di fronte ad una torta tutta da mangiare. Una torta di tanti strati, ed il bambino non sa quale strato gli piacerà di più, sa solo che vuole, che deve mangiarli tutti. Uno ad uno. E nello stesso momento in cui sta per addentare la torta, gliela portano via”. Così Pier Paolo Pasolini saluta New York e Oriana Fallaci che lo intervista.

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In Basilicata, invece, l’immagine di Pasolini è stata mummificata ideologicamente nel più misero dei modi. Ormai consegnato solo alla esaltazione della regione arcaica ed arretrata che paradossalmente (e pazzescamente, aggiungerei ) è diventato un tratto distintivo di quella ideologia deviata, dal sottoscritto denominata come ‘basilisca’, quest’ultima sfrutta il mito di Pasolini per girare la frittata, facendo passare per superiore ciò che è sempre stato e sempre rimarrà inferiore. L’immagine ossificata dei tre santi numi della ideologia basilisca è, almeno in parte, anche una immagine volgarmente mistificata. Se Levi è il cantore di questo mondo arcaico ed emarginato, che oggi delira di vantare bellezze artistiche paragonabili a Roma ed a Venezia, i lucani o i basilicatesi (basilischi e non) non sanno, o fingono di non sapere, che esiste anche un Levi del tutto diverso, da molti critici identificato nel Carlo Levi del libro ‘L’orologio’, dove Levi parla della esperienza del governo Parri nella Roma del primo governo dell’Italia liberata. Se c’è uno Scotellaro, icona della ideologia basilisca e poeta della condizione contadina e rurale, c’è anche uno Scotellaro che ha vissuto a Potenza nei momenti tragici del post 8 settembre 1943 e che, come detto poco sopra, nutre affetto per Potenza. Parimenti, se c’è un Pasolini assurto a topoi della vittoria o della grandezza della ideologia basilisca (non saprei bene cosa alcuni vorrebbero ricavare ideologicamente dalla breve esperienza a Matera di Pasolini regista), esiste anche un Pasolini che scopre New York e che se ne innamora, che si innamora cioè del simbolo della modernità e del capitalismo più avanzati. E, c’è quindi anche un Pasolini che visita Potenza e che la trova una New York in miniatura.

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Il giudizio pasoliniano su Potenza non era sbagliato, ma era parziale ed incompleto. Potenza non è nemmeno, in fondo, una New York in miniatura, in sedicesimo; non è del tutto vera la sua immagine esclusivamente moderna, anche se in stridente contraddizione con la regione arcaica nella quale è inserita e della quale è il capoluogo regionale. O meglio; era giusto considerarla come totalmente estranea ad operazioni di esaltazione dell’arcaico contadino e quindi basilisco, ma non estranea alla antichità storica. Arcaico ed antichità storica possono essere anche due cose molto lontane e diverse, come il caso Basilicata dovrebbe far sospettare. 

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Sono passati cinquant’anni da quelle giornate. Oggi Pasolini, che fu sempre un chiaroveggente dei fenomeni politici, sociali e culturali vedrebbe, se fosse ancora vivo, Potenza come una città eclettica (ed eclettica Potenza lo è davvero), ambivalente, piena di contraddizioni e di opposti. La vedrebbe, insomma, come una città né solo moderna, né antica o solo antica (e pur antica lo è), la vedrebbe come una città dall’animo postmoderno, capace di sentir come propri sia l’elemento antico sia l’elemento moderno ed ultramoderno, senza alcuna parzialità ed imbarazzo.

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C’è ancora una domanda che Woodcock pone a D’Orrico nella immaginaria intervista: “Ha fatto uso durante il soggiorno a Potenza di cimici, microfoni nascosti o altra attrezzatura atta ad ascoltare colloqui tra persone?”.

“Sì,  – risponde lo scrittore – mi sono trasformato in cimice umana per ascoltare le conversazioni del più frequentato salotto di Potenza: la macelleria di Vincenzo Palmieri che affaccia su via Pretoria, la strada dello struscio del sabato sera, nel cuore del centro storico. Il professor Palmieri ha insegnato storia dell’arte nelle scuole medie poi ha rilevato l’attività paterna e la sua macelleria è diventata il luogo di incontro di tanti potentini. Chiederei che venga allegato agli atti un piccolo florilegio di frasi intercettate nel salotto del Professore: 1) Il Dottore (Woodcock) è una persona alla mano, non è un tipo che si crede chissà chi; 2) Molti potentini vogliono il Dottore sindaco, grazie a lui Potenza sembra diversa e ora i giornalisti sanno dove si trova la città; 3) Molti giocatori e attori dovrebbero fare una statua al Dottore perché li ha liberati dai ricattatori; 4) Il Dottore è una persona che fa il suo dovere e non capisco perché è stato alzato tutto questo polverone. Anzi si capisce benissimo perché è stato alzato, perché questa inchiesta storica avviene in una città del Sud e molti al Nord pensano che noi portiamo ancora l’anello al naso; 5) Dicono che ora Vallettopoli è finita ma non è vero, il Dottore non si ferma, lo sapete che ha 180 giorni di ferie arretrate?”.

Certamente, Potenza deve molto a Woodcock, a cominciare dall’orgoglio di sentirsi o di essersi sentita negli anni passati una capitale della giustizia italiana, la città dalla cui Procura della Repubblica partivano attacchi al cuore marcio delle istituzioni italiane in un ruolo che alcuni detrattori definirebbero ‘giustizialista’ e che mettevano Potenza sotto un potente faro in condivisione con Milano e Palermo, le altre due capitali della giustizia d’assalto in Italia. Solitamente una città del Sud diventa nota o perché è roccaforte di grandi organizzazioni criminali o perché simboleggia l’arretratezza. Potenza con Woodcock non è diventata nota né per l’una, né per l’altra ragione, ma anzi per una ragione positiva; una città del Sud, neanche tanto grande, che si proponeva giustiziera in nome dell’intero popolo italiano. Una città siffatta non poteva che appoggiare totalmente il suo pm dal cognome inglese. Ed era molto bello non solo far sentire al pm la vicinanza della città, ma anche ritrovare ogni mattina la propria città sui titoli a nove colonne di tutti i quotidiani italiani. Cosa che è andata avanti con parecchie inchieste per mesi. Il Somaliagate, il Savoiagate, Vallettopoli, l’inchiesta sulla P4, lo scandalo Lega, il caso Berlusconi, l’inchiesta sulla Guardia di Finanza, l’inchiesta Consip, il Vipgate, le tangenti Inail, inchieste che hanno fatto tremare i potenti d’Italia, dell’Italia marcia del secondo dopoguerra, sono partite tutte dalla Procura potentina del pm Henry John Woodcock.

Insomma, se il “Dottore” vuole tornare troverà la porta apertissima ed un popolo potentino ancor più disposto a accoglierlo. Chissà cosa avrebbe detto a tal proposito Pasolini. Chissà cosa avrebbe detto della Potenza di Woodcock. Non il Pasolini del ‘Vangelo secondo Matteo’, però, ma quello delle ‘Lettere luterane’, il libro postumo del 1976 in cui delinea un processo al Potere, un processo alla DC.

PINO A. QUARTANA

 

 

 

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