“A chi giunge oggi a Potenza nel riarso paesaggio estivo o in quello nevoso invernale e si inoltri lungo il “Ponte” che – come l’istmo di un’isola in terraferma – allaccia il centro abitato alla campagna circostante si presenterà subito un nuovo tassello dell’edilizia urbana, che immediatamente lo colpirà per l’insolita struttura e per l’imponenza dei volumi. Di che si tratta? si chiederà il viaggiatore; d’un fortilizio o di una scuola, d’una cattedrale o di una fabbrica? La nostra epoca e la nostra architettura sin troppo laica ma tuttavia alla ricerca di una nuova sacralità hanno per lungo tempo disprezzato e condannato ogni monumentalismo, ogni retorica, tanto dell’edificio religioso quanto di quello civile. E non è un caso se l’architettura è degradata a mera edilizia, ha visto appiattirsi il suo linguaggio durante tutta la lunga parentesi postbauhasiana e il falso puritanesimo dell’international style. Salvo poi – negli ultimi anni il danno è altrettanto patente – a cercare di riaffermare i suoi diritti esibizionistici e reclamistici con l’iperdecorativismo di certo postmoderno, con la bizzarria gratuita e spesso spropositata di edifici esclusivamente pretestuosi e transeunti”.
Questa lunga citazione introduttiva è di Gillo Dorfles, il decano, anzi il patriarca (anche per via della incredibile età; 107 anni!) dell’Estetica italiana, il padre della critica e della teoria dell’arte in Italia, filosofo e professore universitario per decenni, insomma, per dirla nel linguaggio popolare in grado di far capire immediatamente a chiunque, anche al profano assoluto di queste difficili materie, la verità e l’essenza di un qualcosa o di qualcuno, Gillo Dorfles è l’indiscusso numero uno, nel nostro Paese, della teoria e della critica d’arte (particolarmente dell’architettura). Quindi, un suo giudizio estetico (da non confondere assolutamente col ‘mi piace’ delle tante casalinghe di Voghera che sui social network ogni giorno imbrattano lo spazio elettronico nell’esprimere i propri gusti spacciandoli per giudizi estetici), anche il più scarno, vale oro. Il grande triestino, milanese d’adozione, è autore anche di una complessa valutazione circa ciò che, a suo tempo, vide a Potenza appena entrato in città dalla parte sud e dopo aver passato il Ponte Musmeci (Musmeci Bridge). Cosa vide? Un’altra presenza architettonica che a Potenza e in Basilicata tutti conoscono per il suo valore d’uso, per la sua destinazione sociale, ma che nessuno, o quasi, ha mai veramente conosciuto anche e soprattutto, cosa che interessa molto di più al sottoscritto ed a ‘Potentia Review’, per il suo valore estetico ed architettonico. Ma ci arrivo man mano. Continuiamo ora a capire meglio la fisionomia del pensiero del Grande Patriarca dell’Estetica italiana (metto volutamente la parola Estetica con la E maiuscola per far capire subito a chi legge che qui siamo proprio agli antipodi esatti dell’estetica per casalinghe di Voghera). “Ma che l’architettura debba avere – oggi come sempre – non solo una funzione pratica ed utilitaria ma anche una funzione psicologica, autopubblicitaria, semanticamente esplicita – scrive Dorfles – mi sembra ovvio ed anzi necessario. Il caso di un Istituto bancario in questo senso è paradigmatico. Quale altro edificio è maggiormente legato ad una precisa funzione, richiede esatte norme costruttive e distributive, ma ha l’indubbia esigenza di essere ben evidenziato rispetto al tessuto urbano, di colpire l’attenzione del pubblico, denunciando le sue principali funzioni e caratteristiche; solidità, sicurezza, aggiornatezza, ‘trasparenza’ e perché no? monumentalità? Se in un’epoca come l’attuale esiste l’urgenza ed anche l’opportunità d’una nuova impostazione monumentale per taluni edifici, direi che questo è l’appannaggio proprio di quelli che per la loro stessa finalità possono permetterselo ed anzi lo reclamano. Se non sarà più il castello del signorotto feudale, il maniero del nobile rinascimentale, la reggia dell’imperatore a fungere da perno d’un nucleo urbano, lo potranno essere nella città contemporanea la scuola, l’ospedale, l’aeroporto, la stazione e la banca”. Mi fermo un attimo. Dorfles sta parlando, ora bisogna dirlo chiaramente, del Palazzo della ex Banca di Pescopagano di Potenza progettato dall’architetto potentino Dante Benedetto Maggio e realizzato tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 del secolo scorso. Il grande critico e filosofo della architettura e dell’arte punta il dito contro ciò che (giustamente) è stato in vari modi condannato dai grandi architetti delle ultime generazioni in tutto il mondo (quelli che hanno adottato schemi postmodernisti non sempre, a dire il vero, con grande successo, anzi, per essere ancor più schietti, con poche grandi opere che rimarranno nella storia delle creazioni artistiche dell’architettura contemporanea); l’appiattimento del Moderno, causato dalla modernità o dal modernismo, per essere più precisi. Gillo Dorfles è stato sempre molto aperto agli esiti postmodernisti della architettura e, almeno in via teorica, ha del tutto ragione quando stigmatizza il fatto che “il più delle volte basta osservare i deserti e squallidi centri d’affari delle grandi metropoli europee per constatare come l’architettura bancaria sia spesso opulenta ma meschina, lussuosa ma anonima. Una delle ragioni più esplicite dell’interesse, e diciamo pure, del fascino del Palazzo della Banca di Pescopagano, ideato e costruito a Potenza dall’architetto Dante Benedetto Maggio, sta proprio nella oculata simbiosi tra funzionalità ed originalità. Si tratta infatti d’una costruzione decisamente capace di imporsi per la sua insolita sagoma; massiccia e solenne per le sue dimensioni ma al tempo stesso di estrema sobrietà e stringatezza”.
Dorfles parla esplicitamente di fascino e leggendo queste note (tratte da un libro dedicato a questa opera, edito dalla Casa Editrice d’arte Mazzotta di Milano) si capisce che il Grande Critico è rimasto colpito da quest’opera che egli cataloga già come un valido prototipo di una architettura dell’avvenire. Oltre a ciò, resta stupito anche, ma non più di tanto, del fatto che proprio in alcune città di provincia questi esperimenti d’avanguardia riescano a trovare sbocchi positivi e traduzioni tra le più felici.
“Cosa caratterizza allora questo palazzo?”, si chiede il mitteleuropeo Dorfles?
“In primo luogo, la sua mole, notevole anche in qualsiasi altro contesto, inoltre la sua struttura apparentemente regolare ed equilibrata, ma in effetti totalmente asimmetrica con la presenza delle quattro torri sfasate tra di loro per altezza così da permettere – secondo l’incidenza del sole – una illuminazione razionale del salone per il pubblico che rimane protetto dai raggi luminosi nella zona destinata agli impiegati mentre riceve il massimo di luce, in quella per il pubblico. Ritengo che questa voluta ed insistita ricerca dell’asimmetrico (non solo nella sfasatura delle torri, ma nell’organizzazione distributiva, nella pianta, nell’alzato, persino nella sistemazione dei caveaux sotterranei e nella modulazione della copertura vitrea) sia uno degli aspetti più significativi dell’intera costruzione. Come è noto – o come dovrebbe esserlo – l’asimmetrico è una delle grandi prerogative di molta arte dei nostri giorni, ed è solo con la rottura di certi schematismi modulari che si può giungere alla formulazione di una nuova fase linguistica dell’architettura. Oltre a queste dissimetrie occorre considerare la totale diversità tra le singole facciate dell’edificio, che presentano caratteristiche molto divergenti a seconda dell’angolatura da cui vengono osservate. Si ponga anche attenzione al rapporto con la superficie cementizia delle torri e dei parapetti che creano una alternativa di opacità e trasparenza molto suggestiva. Ma quello che rende forse più insolito l’edificio è la copertura del grande salone, la quale essendo situata a metà circa dell’intero invaso, crea, con l’abile gioco d’una frangiatura seghettata della parete interna e il rispecchiarsi della stessa nelle superfici cristalline sottostanti – superfici tutte sfasate tra di loro – un sepimento che consente un tipo di veduta totalmente diversa se contemplata dal basso o dall’alto, precisamente venendo a costituire nel primo caso una lamina trasparente attraverso la quale – sia pur spezzettata dalle strutture metalliche quadrangolari – appare l’azzurro intenso del cielo estivo o la cupa e scintillante massa nevosa invernale; mentre, nel secondo caso una sorta di labirinto vitreo permette, ma deformandola, la visione della hall sottostante”.
Accorgersi di queste caratteristiche dell’opera di Dante Benedetto Maggio diventa tutt’uno con la questione del rapporto col contesto urbano e, addirittura, con l’identità di Potenza. E qui non è solo il critico che si avvede di certe determinate caratteristiche di Potenza ma, ancor più, il teorico. Quindi, Dorfles ad un certo punto dice:
“In questo modo anche quelle che sono le ‘prerogative geo-fisiche’ di Potenza vengono ad essere esaltate; la sua peculiarità di città meridionale, dove si accende e vibra l’azzurro estivo; e quella del più alto capoluogo d’Italia che d’inverno conosce il bianco della neve come e più di molte capitali nordiche”. Qui, detto per inciso, ci sarebbe da richiamare tutto un discorso che affrontammo mesi fa in un saggio sulla identità di Potenza (lo trovate sempre in questa stessa rivista), ma sarà il caso di riparlarne un’altra volta. Voglio focalizzare hic et nunc il discorso su ciò che il grande Gillo riscontra come segni dell’arte e del fascino del palazzo potentino in questione.
“Non è certo facile – per chi voglia analizzare a fondo questo “Palazzo” – decidere – scrive Dorfles – quanto di moderno o di postmoderno si dia nel suo stile. Non mi sembra qui che si possa parlare di diretta derivazione. Certo la costruzione risponde perfettamente alle esigenze di funzionalità, non solo per quanto concerne i vari problemi di una tecnologia bancaria moderna (uffici più o meno aperti, cassette di sicurezza perfettamente isolate e blindate, sale consiliari, presidenziali, biblioteche e servizi vari) ma anche per quelle che sono le qualità “simboliche” di tali funzioni. E, tuttavia, l’edificio si inserisce anche in quello che possiamo considerare il discorso linguisticamente più attuale del fare architettonico: una certa volontà decorativa presente nella strutturazione del pavimento del salone, nella sagomatura delle rampe d’accesso, nelle profilature dei banconi per il pubblico, nei frammenti di cornicioni delle torri, nella curiosa scala semicircolare dell’ingresso maggiore specularmente negativizzata attraverso la sagomatura del soffitto d’una saletta sottostante all’interrato … Tutte queste sono affermazioni di un tendere verso atteggiamenti che si discostano dalla monotonia dominante nelle costruzioni più tipiche del Movimento Moderno, basate un tempo sul ‘plan libre’ o sopra una modularità regolare a tutti i costi. Col tentativo insomma di sviluppare un piano distributivo secondo una multipolarità di semantizzazioni diverse. E, ancora, e credo che sia opportuno sottolinearlo – non c’è nulla qui se non in apparenza – della sintassi ‘brutalista’ (alla Smithson-Kahn, per intenderci) come potrebbe far pensare l’impiego molto esteso di pareti cementizie lasciate in vista, che sono, semmai, trattate persino con eccessiva ricerca di preziosità materiche; mentre appaiono, del pari, molto lontane dagli effetti meramente “di gusto” di certe soluzioni alla Scarpa…. In definitiva, ritengo che il palazzo di Dante Benedetto Maggio, tanto se lo si situa nel contesto lucano, e dunque periferico e meridionale, tanto se lo si considera ‘decontestualizzato’ come opera a sé stante costituisca un esempio molto significativo soprattutto in un senso; quello della sua capacità di ‘stupire’ e ‘meravigliare’ il visitatore e di imporsi per degli elementi insoliti, seppur rigorosamente appropriati all’uso. Una delle mete, insomma, alle quali dovrebbe sempre tendere l’opera di un architetto dei nostri giorni, all’infuori di ogni faziosità ideologica e di ogni schieramento programmatico”.
Le due questioni poste da Dorfles sono determinanti ed estremamente interessanti per una profonda analisi estetica. La prima; quanto c’è di postmodernismo in quest’opera potentina? Molto, sembra suggerire il patriarca dei teorici e dei critici della architettura italiani. al punto tale che neanche l’apparenza ‘brutalista’ (da beton brut, cemento grezzo a vista) sembra inficiare l’ispirazione e la fisionomia nettamente postmoderne del progetto di Dante Benedetto Maggio, che, da vero potentino, non poteva non essere sensibile nel momento della progettazione alla dialettica spontanea, e per nulla conflittuale, fra i diversi linguaggi della Modernità architettonica (intesa qui come epoca), anche fra quelli che sembrano porsi in reciproco conflitto (il modernismo ed il postmodernismo). I potentini, e torno per un attimo anche ai significati identitari, hanno questa specificità nel loro dna che li differenzia nettamente dagli altri lucani (o basilicatesi) e abbastanza anche dagli altri meridionali. Dorfles intuisce qualcosa di questa differenza. La seconda questione è quella della capacità da parte del Palazzo di Dante B. Maggio (ex Pescopagano, ex Mediterranea ed ora Unicredit) di ‘stupire’ e mi sembra proprio che Dorfles risponda in modo molto chiaro riguardo ad essa. Si tratta di opera d’arte e, ancor più specificamente, di un esempio tra i meglio riusciti di architettura postmodernista in Italia. Costruzione dotata di un suo proprio fascino e di una sua semantica. Mi permetto di aggiungere che per un teorico del Postmoderno i motivi dell’interesse e, se si può dire così, dell’entusiasmo suscitato dal Palazzo bancario sono anche altri. Vedrò di parlarne in chiusura. Nel volume della Mazzotta Editrice di Milano c’è un’altra bella ed interessantissima testimonianza critica, oltre a quella di Dorfles; è del compianto Benedetto Gravagnuolo, che fu Preside della Facoltà di Architettura dell’Università di Napoli. Per Gravagnuolo, capire l’originalità e la complessità (dietro l’apparente facciata di semplicità) di questa autentica opera d’arte del postmodernismo architettonico italiano significa rifarsi al lontano passato medioevale (l’elemento premoderno della sintesi postmoderna, in altri termini). In particolar modo, in questo caso, “…l’immagine più icastica è il Castello di Lagopesole, che si staglia con la sua poderosa mole delle sue quattro torri angolari sulle alture lucane. E’ una immagine arcaica e moderna allo stesso tempo, medioevale ed attualissima nella purezza stereometrica dei suoi volumi lapidei; una immagine che sembra condensare l’ideal-tipo astratto e atemporale del modus aedificandi, scarno ed essenziale come la più autentica tradizione costruttiva lucana. L’altro paradigma è l’idea di centralità che ha origini profonde nel retroterra storico meridionale; dalla domus italica alla mitica Villa di Poggioreale”. Dunque, uno dei termini della sintesi, se sintesi c’è stata (lo vedremo in chiusura ma anticipo che c’è stata) viene precisamente individuata; la premodernità medioevale del Castello Svevo federiciano (in realtà, normanno-svevo) della vicinissima Lagopesole (borgo che per secoli Potenza cercò di attrarre a sé nei suoi confini). Per la parte moderna e contemporanea, Maggio, come scrive Gravagnuolo, si è ispirato a mondi ben lontani dal medioevo meridionale. I suoi riferimenti più specifici si trovano sparsi fra varie metropoli del mondo moderno.
“Tutto questo sottofondo di reminescenze si mescola e si confonde con i motivi del Moderno: dalla Postparkasse di Otto Wagner (a Vienna n.d.r.) alla Bank of Manifactures Trust Company di Skidmore, Owing e Merril (situata a New York e considerata come il vero modello del Modernismo n.n.). Dunque un tentativo, almeno nelle intenzioni, di operare una sintesi di antico e nuovo, di tradizione e innovazione, di cultura del costruire locale e aggiornamento delle tecniche internazionali, di memoria storica e linguaggio autobiografico. Ma veniamo al palazzo costruito a Potenza. A prima vista la sensazione che trasmette è quella di un castello del nostro tempo, in beton brut ed asimmetrico, moderno, giocato sulla contrapposizione materica tra la ruvida compattezza muraria delle torri d’angolo e la trasparente membrana del curtain-wall nel corpo centrale. L’impianto tipologico ha insomma una sorta di chiarezza didascalica, che evoca paradigmi storici senza tuttavia ripetere soluzioni già date. L’innovazione sta nei fatti, al di là delle stesse premesse intenzionali”.
Gravagnuolo ritiene che le fonti di ispirazione che hanno guidato l’architetto potentino siano da rinvenire in alcune grandi figure ‘mitiche’ del 1900; da Le Corbusier degli anni ’50 per la tecnica del cemento a Carlo Scarpa per la cornice “a dentelli”, da Louis Kahn dei Laboratori Richards fino agli autori della Ford Fondation Building di New York di Kevin Roche e John Dinkeloo (che, aggiungo, furono anche gli architetti, sempre a New York, dell’United Nations Plaza, il quartiere generale dell’UNICEF e della nuova ala del Metropolitan Museum of Arts). Soprattutto il Ford Foundation Building è stato l’esempio ispiratore per quanto riguarda la parte moderna del ‘Palazzo’ di Dante Benedetto Maggio. E a questo punto si trova una considerazione di Gravagnuolo, che tocca direttamente non solo il castello postmoderno, ma anche la città che lo ha voluto e di cui fa parte, una città, con una fortissima propensione al moderno ma che, nel complesso, si configura ancor più come una città naturaliter postmoderna. Può essere postmoderna solo perché si è sempre aperta al Moderno e lo ha desiderato e attraversato durante lunghe fasi storiche, una propensione alla modernità, che, a volte, ha generato anche distorsioni ed esagerazioni più in campo urbanistico che architettonico, però, ad essere precisi. Non vale il contrario, come si è creduto per lustri nell’ambito filosofico, ma anche architettonico (quest’ultimo influenzato dal primo); non si può essere veramente postmoderni se prima non si è stati fortemente moderni. Così come, al tempo stesso, non si può essere veramente postmoderni se il Moderno non entra in un certo tipo di relazioni con l’Arcaico o il Premoderno.
“Eppure nonostante la vicinanza ad una delle tappe, anche turistiche, dell’arte architettonica contemporanea e del Moderno a New York, il Palazzo potentino non è affatto estraneo al contesto locale e cittadino di Potenza in particolar modo”, scrive Gravagnuolo, il quale poi aggiunge che “prima ancora dei castelli medioevali che punteggiano il paesaggio lucano, è la stessa forma urbis del nucleo storico di Potenza a suggerire l’idea del costruire le ‘istituzioni’ con arroccamenti monolitici emergenti dal più minuto e piano tessuto residenziale connettivo”. E, poi, una considerazione che mi trova assolutamente d’accordo, tanto più alla luce, nel caso in questione, del carattere non determinante e non essenziale del ‘brutalismo’, come sottolineato da Dorfles.
“Piuttosto una osservazione può essere riservata all’uso specifico dei materiali. A parità di forme, l’adozione di un rivestimento lapideo avrebbe, forse, consentito un radicamento più profondo nell’humus regionale e una più godibile evocazione medioevale, a differenza del beton brut che mostra una accettazione trepida dei ‘pre-giudizi’ della modernità … essere moderni, costruire nello spirito del proprio tempo non significa necessariamente adottare le forme ed i materiali nuovi dell’edilizia corrente. Anche una casa in pietra può appartenere al nostro modo di sentire e vi sono luoghi dove ha più senso costruire in pietra che in cemento soprattutto se tale materia è coerente con i presupposti intenzionali della architettura caldeggiata”.
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Concludo con alcune brevi considerazioni personali su quello che ormai si può definire il castello postmoderno di Potenza. considerazioni sul postmoderno e su questo palazzo di Potenza: un cubo di cristallo con quattro torri agli spigoli stando alla definizione del suo autore, l’architetto potentino Dante B. Maggio. Come ho già detto in varie sedi ed in vari momenti, Potenza si propone sempre più, man mano che si scandaglia profondamente il suo profondo, spesso non facilmente scrutabile, fondale patrimoniale, come una delle città di provincia a più alta densità di momenti interessanti ed importanti della architettura del 1900, proprio come sembrava suggerire Dorfles nel passaggio già riportato sulla imprevedibilità di certa provincia italiana. All’interno del notevole patrimonio potentino del Moderno e del Contemporaneo, si staglia con nettezza una presenza postmodernista di autentica eccellenza. Si è visto nel caso del complesso del Conservatorio firmato da Giovanni Rebecchini e si riscontra la stessa qualità e lo stesso interesse anche nel caso del castello postmoderno di Dante B. Maggio detto anche il Palazzo bancario. Sul totale, calcolato dal sottoscritto, di circa dodici, forse tredici, addirittura quattordici tappe dell’architettura del 1900 di gran pregio e valore a Potenza, la frazione postmodernista di questo rilevante patrimonio architettonico ed artistico è rappresentata dalle due opere di Rebecchini e di Maggio. Dirò di più, confortato dai giudizi di Dorfles e di Gravagnuolo; i due complessi architettonici in questione sono tra i più riusciti esempi di architettura postmodernista in Italia. Non è facile trovare in Italia una città che racchiuda due piccoli gioiellini del postmodernismo architettonico come a Potenza. Il discorso fatto per la struttura di Rebecchini vale a maggior ragione per quella di Dante B. Maggio. Segno inconfondibile di una autentica opera d’arte postmodernista in ambito architettonico è la capacità dell’architetto di far sì che nell’opera si attui una vera sintesi fra gli elementi dissonanti ed eterogenei. Bisogna, in altre parole, che si riesca a intravedere chiaramente nella forma del costruito il netto oltrepassamento (Uberwindung) della ‘zona grigia’ nella quale la sintesi artistica (o geniale) si confonde con il pastiche o addirittura con il kitsch, dal momento che, purtroppo, i due ultimi termini hanno connotato molte architetture del postmodernismo in Italia e nel resto del mondo. A Potenza abbiamo, fatto già raro in sé, due architetti che con grande coraggio si sono lanciati su un terreno fortemente sperimentale, ma, fatto ancor più raro, abbiamo anche due gioiellini del postmodernismo entrambi riusciti e riusciti proprio perché da noi si è determinata una sintesi e non un pastiche. La sintesi, l’idea più avanzata storicamente, nasce, prima ancora che nell’ambito architettonico, in quello filosofico ed è una idea progressiva e non passatista o tartufesca. La sintesi si riscontra quando è l’elemento moderno a prevalere nello scambio con l’elemento premoderno. Certo, si tratta di un rapporto simbiotico ed osmotico di scambio e di fusione abbastanza complesso, il cui approfondimento esula da questa trattazione, però, intanto ciò che si può dire in termini estremamente semplificati è che la sottile, e spesso invisibile a prima vista, dividing line tra pastiche o kitsch, da un lato, e sintesi e quindi arte autentica, dall’altro, si materializza per due volte a Potenza, fatto, come dicevo poc’anzi, abbastanza raro, tanto più in una piccola-media città italiana di 70.000 abitanti. Come mai? Diciamo che la felice e duplice impresa è stata favorita dal genius loci, dallo spirito di questa città, abbastanza particolare, in effetti, per essere una città del Sud Italia. Per concludere, vorrei richiamare l’attenzione degli amministratori e dei detentori delle leve della burocrazia culturale su due piccoli aspetti pratici, tuttavia degni di essere rilevati. Il primo. Bisognerà fermarsi un attimo e definire questa icona del postmodernismo architettonico meridionale ed italiano con un nome stabile. Seguendo le peripezie del mercato bancario, il Palazzo ha cambiato già più volte il suo nome e proprietario; Palazzo della Banca di Pescopagano, Palazzo della Banca Mediterranea, attualmente Palazzo dell’Unicredit. Domattina il colosso bancario milanese potrebbe anche decidere di vendere il suo ramo potentino ed il Palazzo e quindi quest’ultimo potrebbe chiamarsi con un nome ancora diverso. Io propongo che da questo momento in poi il palazzo venga identificato stabilmente col nome del suo creatore e progettista; il Palazzo di Dante Benedetto Maggio.
Seconda questione pratica. L’Unicredit cosa pensa di questo palazzo? Certamente se lo ha fatto restaurare non può che pensarne bene, ma sarà prevista la possibilità di inserirlo in un circuito turistico cittadino? Sono questioni che bisognerà approfondire da qui in avanti. Ad esempio, c’è l’interesse della Sovrintendenza o no? Di sicuro, c’è che Potenza può contare su una ulteriore testimonianza architettonica di grande valore e che il problema che emerge sarà sempre più quello di mettere a sistema ed a frutto tutto questo grande patrimonio materiale cittadino. In altri termini, è il problema della valorizzazione. Da questo punto di vista, Potenza solo ora comincia a fare i suoi primi passi in questa direzione.
PINO A. QUARTANA