In questo quinto ed ultimo scritto del ciclo POTENZA 1799 devo rivelare ai lettori l’ultimo grande nome che, dopo l’abate Henry Gregoire e dopo Benedetto Croce, si interessò ai fatti di Potenza di quell’anno di grande storia, che apprezzò l’opera dei patrioti potentini e che contribuì a dare lustro e gloria alla nostra città. Il lustro e la gloria si conquistano sul campo, come fecero i patrioti potentini, ma se poi i fatti storici non c’è chi li valorizza e li diffonde restano spesso inespressi, allo stesso modo in cui gli stessi fatti restano confinati in una angusta prospettiva locale e non vengono né conosciuti, né apprezzati oltre la siepe della città in cui si sono svolti o di cui quella città è stata protagonista. A favore di Potenza, ma forse lo sappiamo solo adesso con questo ciclo pubblicato su ‘Potentia Review’, questa luce della gloria storica è stata accesa prima di tutto, in ordine di tempo dall’abate francese Henry Gregoire, grande figura, come già ho avuto modo di dirvi in un precedente articolo, della Rivoluzione Francese e della Chiesa Francese per un lungo periodo a cavallo tra 1700 e 1800, dal vescovo Domenico Forges Davanzati, il primo a scrivere dei tragici e storici fatti storici potentini (quei fatti che vengono ascritti alla Storia con la S maiuscola, quindi, mai sola storia locale o localistica, ma storia statuale, italiana ed europea) su incarico di Gregoire, e dal grande filosofo e storico italiano Benedetto Croce. Ma tra Gregoire / Forges Davanzati e Croce c’è un’altra grande figura da inserire cronologicamente, un’altra grande figura tuttora ignota agli stessi potentini. Una grande figura di letterato e storico, cioè, nientedimeno che, il più popolare scrittore francese di tutti i tempi. Il suo nome è notissimo da sempre per essere l’autore di immortali capolavori della letteratura mondiale, che, sono sicuro, molti di noi conoscono sin dalla infanzia e dalla adolescenza, ma che mai era stato tirato in ballo per i fatti storici della nostra Potenza, Alexandre Dumas padre, l’autore de ‘I tre moschettieri’, di ‘Vent’anni dopo’, de ‘Il Visconte di Bragelonne ‘ e de ‘Il Conte di Montecristo’. Dumas amava follemente l’Italia e ha vissuto a Napoli per quasi tre anni al seguito di Garibaldi. A Napoli fondò il suo quotidiano, ‘L’Indipendente’, fu sovrintendente per Pompei e rese altri preziosi servizi all’Eroe dei due Mondi. Evidentemente, i fatti potentini del 1799 avevano destato un forte interesse in Dumas. Il grande scrittore francese ne parlò in ben tre suoi libri, quelli del cosiddetto ‘ciclo partenopeo’. I tre libri sono: “I Borboni del Regno di Napoli”, “La camorra ed altre storie di briganti” e “La Sanfelice”, dedicato alla memoria di una sfortunata eroina della rivoluzione napoletana e giacobina, Luisa Sanfelice, a cui anche Potenza ha dedicato un vicolo, quello che si trova nella direzione Piazza Prefettura-Portasalza tenendosi sulla sinistra. E’ il primo vicolo sulla sinistra e in quel vicolo c’è pure un arco. “La Sanfelice”, infelice sposa, infelice amante e sfortunata patriota giacobina della Repubblica Partenopea (trovò una orrenda morte sul patibolo a Napoli il giorno 11 settembre del 1800), è, a mio parere, il più grande libro sulla Repubblica Partenopea del 1799, senza nulla togliere a Vincenzo Cuoco. Comincio quindi questo viaggio in tre tappe del Dumas che consacra la gloria di Potenza 1799 riportando quanto scrive il romanziere nel libro “I Borboni del Regno di Napoli”.
“Poi vi si gettarono tutt’i ritratti della famiglia di Ferdinando che furono bruciati dal primo fino all’ultimo, fra le grida di Viva la Repubblica. Ma quando, alla lor volta, vi si vollero gettar le bandiere, il popolo se ne impadronì, le trascinò nel fango, e nelle immondizie, e le ridusse in brani, i quali furono dati ai soldati per metterli in cima alle loro bajonette.
Restavano i prigionieri. Non aspettavano che la morte, Manthonet esclamò: Giù le catene
Allora alcune donne si precipitarono, e in mezzo agli evviva, alle lagrime, alle grida, in mezzo alla meraviglia, alla gioia in fine, fecero cadere i legami di trecento captivi, liberi ad un grido universale di grazia, e di Viva la Repubblica.
Nello stesso tempo, altre donne entrarono con bicchieri e bottiglie piene di vino, e i prigionieri stendendo verso la libertà le loro braccia libere, bevettero alla prosperità di quelli che dopo aver saputo vincere, cosa più difficile, sapevano perdonare.
La giornata si terminò con una festa che ricevette il nome di Festa della fratellanza.
La sera Napoli fu illuminata a giorno.
Ohimè! … era il suo ultimo giorno di gioia; il domani, giorno della partenza dell’esercito, entravasi nei giorni di lutto.
Il mattino stesso di questa solennità, si era ricevuto la notizia di un triste dramma avvenuto nella capitale della Basilicata.
Il vescovo di Potenza, che chiamavasi Francesco Serrao, era un calabrese, uomo di alta rinomanza nell’episcopato, nella letteratura, ma più conosciuto e più venerato ancora per la sua vita esemplare, per la sua carità evangelica che pel suo rango ed il suo sapere. Dotato di senso giusto, di animo generoso, aveva salutato la libertà come l’angelo del Popolo, promesso dagli evangeli, ed aveva non solo accolto, ma benanco propagato il movimento liberale e le dottrine rigeneratrici.
Ma l’azzurro di questo bel cielo repubblicano già si oscurava. Da ogni parte le bande sanfediste sorgevano, e in tutti i luoghi che visitavano vi recavano l’assassinio e il saccheggio. Il degno vescovo pensò a provvedere alla salvezza dei suoi concittadini.
Egli ebbe perciò l’idea di far venire dalle Calabrie, vale a dire dalla sua terra natia, una guardia di quegli uomini d’armi, noti col nome di armigeri, razza piena d’audacia e di coraggio, che al tempo della feudalità si metteva a soldo degli odi o delle ambizioni baronali, discendenti, o forse antenati dei nostri antichi concittadini.
Il degno Vescovo, pagandoli bene, sperava avere in questi uomini suoi compatriotti, dei difensori coraggiosi e devoti.
Ma le speranze di Monsignor Serrao furono deluse; dopo un breve spazio di tempo, si avverò che questi miserabili, avendo probabilmente ricevuto dal Cardinale Ruffo una somma più considerabile di quella riscossa dal Vescovo di Potenza, eransi corpo ed anima dati ai Borboni.
Questa banda aveva due capi, e questi capi erano conosciuti sotto i nomi di Capriglione e Falzetta.
In uno dei primi giorni d’aprile, Monsignor Serrao, stando ancora in letto, vide aprirsi la porta della sua camera: Capriglione apparve sulla soglia e senza preamboli, gli disse:
Monsignore, il popolo vuole la vostra morte.
Il Vescovo alzò la mano dritta, e, facendo il gesto di un uomo che dà la benedizione,
Benedico il popolo, egli disse.
Ma, senza lasciargli il tempo di aggiungere altro a queste parole evangeliche, il bandito mirò il prelato e fece fuoco.
Il Prelato, che erasi alzato per benedire il suo assassino, ricadde sul letto col petto forato da una palla.
La morte di Monsignor Serrao fu seguita da quella del suo Vicario Monsignor Serra, e da quella di due proprietari distinti, conosciuti per i primi liberali della città.
Essi chiamavansi Gerardangelo e Giovanni Liani (Siani n.n.) ed erano fratelli.
Corse voce in quell’epoca che la morte del Vescovo era una vendetta particolare della regina Carolina, che avendo saputo quello che essa chiamava la sua apostasia, lo aveva condannato, ma nulla giustificò questa voce. Perciò non mettiamo a carico della regina che i soli delitti provati.
D’altronde, molti assicurano che la vendetta proveniva da un prete di cui Monsignor Serrao aveva censurato la condotta sregolare: e la cosa è tanto più probabile in quanto che questo prete, il quale chiamavansi Angelo Felice Vinciguerra, si riunì il domani del delitto alla compagnia di quei Banditi e contribuì con essi ad immergere Potenza nel sangue e nel lutto.
Allora i liberali, i patriotti, i repubblicani, tutti quelli in fine, che appartenevano ad un nucleo qualunque di opinioni nuove, furono presi da un profondo terrore, dappoichè si sparse per la città la voce che il giorno in cui doveva celebrarsi la festa del sangue di Cristo, cioè il giovedì dopo Pasqua, dovevano essere trucidati in mezzo alla processione, tutti coloro che avevano una reputazione di patriotti non solo, ma di ricchezza e di galantomismo in Potenza.
Il più ricco di tutti fra quelli che erano minacciati da questa voce che circolava, era uno dei più onesti cittadini: Nicola Addone. Costui, uomo di cuore fiero, di animo risoluto, decise, di accordo col suo fratello, chiamato Basilio Addone, di purgare la città, da quella turba di banditi.
Egli perciò chiamò quelli fra i suoi amici che reputava come uomini fra i più coraggiosi del paese: nel numero di questi erano un nominato Giuseppe Scafanelli, un Jorio Mandiglia, un Maffei e sette o otto altri, dei quali ho inutilmente domandato i nomi alla memoria degli abitanti di Potenza.
Il risultato del Consiglio fu che bisognava annientare Capriglione, Falsetta e la loro banda.
Per raggiungere lo scopo, si convenne riunirsi in un dato giorno, metà nella casa istessa di Nicola Addone, e metà nelle case vicine al Palazzo ove doveva farsi l’esecuzione”.
Tronco in questo punto il racconto de “I Borboni del Regno di Napoli” perché il prosieguo è sostanzialmente una ripetizione degli stessi fatti che vi riporterò per intero solo nella versione di Dumas della ‘Sanfelice’. Ma nella ‘Sanfelice’ Dumas non parla di ciò che dopo la strage accadde ad Addone. Ci sono delle cose che Dumas mette in un libro ed altre no. Conclusasi con successo l’operazione, una vera e propria operazione militare, sebbene condotta contro sanguinari briganti sanfedisti, cosa accade agli Addone? Il grande romanziere ce lo dice sempre in questo libro, mentre, come ho detto, non ce lo dice nella “Sanfelice”. Questo strano modo narrativo si spiega con le caratteristiche letterarie di Dumas, che fu precursore del genere ‘feuilletton’. Insomma, scriveva i suoi libri a puntate e queste puntate venivano immediatamente pubblicate sull’Indipendente e sul giornale francese ‘La Presse’. Poi, c’è da aggiungere che il suo ciclo narrativo napoletano prevedeva più di un libro ed ecco spiegata la curiosità. Una gestione abile della propria produzione impostata come una produzione che aveva una domanda talmente vasta al punto di non mettere tutto in uno stesso carniere, se posso dire così. Quindi, sempre in questo stesso libro, apprendiamo il resto sui fratelli Addone. Un resto che ad un certo punto devia verso l’incredibile come solo il romanziere Dumas avrebbe saputo fare, ma non lo storico Dumas. Voglio dire semplicemente che il romanziere Dumas non aveva bisogno in questo caso almeno (ma anche in altri verificatisi in tutto il Regno di Napoli) di inventarsi nulla perché la realtà era più romanzesca della fantasia creatrice del romanziere.
“Era la notizia di questa liberatrice carneficina che lo stesso mattino giungeva dalla Basilicata. Finiamo in fretta con Nicola Addone. E mentre che abbiamo la nostra penna nel sangue, scriviamo fino alla fine l’istoria dell’assassinio. Allo avvicinarsi del Cardinale Ruffo, Addone e tutti quelli che avevano presa una parte attiva alla carneficina, furono costretti ad allontanarsi; la famiglia dei due fratelli soffrì considerevoli perdite e accanite persecuzioni: si saccheggiò ed incendiò la loro casa, si tagliarono le loro vigne e i loro oliveti rasente terra; si distrussero le loro messi in erba.
In quanto alla città, essa fu data ai sanfedisti e il sacco fu diretto da Sciarpa, ciò che vuol dire che la cosa fu coscienziosamente eseguita.
Allorquando la dominazione francese si stabilì a Napoli sotto Giuseppe Napoleone, Nicola Addone ricomparì e fu bene accolto dal Re francese, che lo nominò Ricevitore Generale della Provincia. Cosa strana! Al ritorno di Ferdinando, nel 1815, il posto gli fu conservato: la voce pubblica pretese che quest’incomprensibile favore fu dovuto a servigi di spionaggio resi al re in esilio. Il fatto è che Nicola Addone fu il primo a spiegare in Potenza la bandiera Borbonica, prima ancora che Murat non fosse caduto dal trono; altro fatto incontrastabile è che Addone denunziò come libero muratore l’Intendente della Provincia, Santangelo, e centodieci fra gli uomini più distinti della Basilicata. Un pubblico giudizio ebbe luogo contro sette di essi, giudizio che dimostrò l’innocenza loro e fu seguito dalla loro liberazione. Nel 1820, accusato di concussione e di falsario, nei registri pubblici della sua amministrazione, prese la fuga, evitò un giudizio, ma perdette la sua carica, un’amnistia pubblicata nel 1821 da Ferdinando I°, gli permise di rientrare; ma da questo momento visse ritirato, e morì oscuro e disprezzato”.
Potenza, aggiungo io, serbò caro nel tempo il ricordo dell’Addone giacobino e volle dimenticare,invece, l’Addone borbonico. La tragica storia dell’eccidio del vescovo potentino Serrao viene ripetuta, cambiando solo pochissime parole, in un altro libro che Alexandre Dumas padre dedicò al ciclo del Regno di Napoli; “La camorra e altre storie di briganti”. Ma, attenzione; questo libro non esiste nella bibliografia ufficiale di Alexandre Dumas padre (dico padre per distinguerlo da Alexandre Dumas figlio, l’autore della ‘Signora delle Camelie’). Questo è un libro molto recente assemblato dalla Casa Editrice Donzelli di Roma nel 2012 con scritti autentici di Dumas, ma che erano già apparsi sull’Indipendente e su La Press. Meglio ancora, questo libro è, in effetti, vecchio e nuovo, quindi da nuovo si può dire che si tratta di un libro postumo pubblicato 140 anni dopo ma con materiali già conosciuti e pubblicati 140 anni prima. Quindi, non ripeterò la storia del vescovo Serrao, narrata nel libro ‘La Camorra…’ perché non farei altro che ripetere, seppure con qualche piccolissima ed irrilevante variante, la stessa prosa testé riportata e tratta dal libro ‘I Borboni di Napoli’. Però, ho già detto prima che ci ritornerò col volume sulla Sanfelice. “La Camorra e altre storie di briganti” è un libro che si compone di 319 pagine. Le pagine che trattano delle vicende potentine del fatidico anno 1799 sono quelle che vanno da pagina 85 a pagina 89. Ma Dumas racconta in questo libro anche altre storie potentine come quella del brigante Taccone e del generale Charles Antoine Manhes ed in questo caso i fatti si svolgono qualche anno dopo, nel 1811, cioè quando la Repubblica Partenopea era già caduta, quando i francesi si erano ritirati da Napoli, quando la carneficina contro i patrioti della Repubblica napoletana era stata già consumata, quando i Francesi erano ritornati nel 1806 nel Regno di Napoli e si apprestavano a dare il via al piano di eliminazione della plurisecolare e terribile piaga del brigantaggio.
“Un brigante regnava sulla Basilicata – regnava è la parola giusta – e malgrado diversi tentativi di arrestarlo il suo regno era continuato sotto Giuseppe e sotto Murat. Questo bandito si chiamava Taccone. Aveva combattuto i nostri più valenti soldati (ovviamente, per ‘nostri’, Dumas qui intende, i soldati francesi n.n.) e grazie alla posizione vantaggiosa, alla conoscenza dei luoghi e al favore della notte, li aveva spesso sconfitti. E quando non aveva potuto vincere, li aveva sorpresi con una tattica del tutto nuova: nel momento più intenso dello scontro, faceva un segno ai suoi uomini e tutti si disperdevano, scappando in direzioni opposte. I nostri soldati, affamati di vittorie, inseguivano quegli agili montanari e a quel punto si ripeteva la vecchia storia degli Orazi e dei Curiazi: i banditi si voltavano bruscamente indietro e ognuno di essi assaliva l’avversario stanco e trafelato; prima che quello si fosse riavuto dalla sorpresa veniva raggiunto da una pallottola o da una pugnalata. Se, invece, il bandito trovava il soldato risoluto e pronto a difendersi fuggiva di nuovo. Taccone era il più valoroso ed il più spietato della truppa. Doveva la sua autorità a queste due qualità. Presso quei selvaggi, il titolo di capo raramente è usurpato: colui che comanda in montagna è sempre degno di comandare. Era, soprattutto, il corridore più veloce della banda. Si sarebbe detto che l’Achille piè veloce di Omero gli avesse legato i calzari d’oro, che Mercurio gli avesse attaccato ai piedi le ali che lo aiutavano a portare i messaggi di Giove. Sembrava balzare da un luogo all’altro: era come il vento, come il lampo. Un giorno che i nostri soldati l’avevano attaccato duramente in un bosco dove aveva fatto finta di resistere, approfittò dell’oscurità per scomparire all’improvviso nelle tenebre con i suoi compari e l’indomani, mentre i soldati perlustravano il bosco e la montagna, arrivò con la sua banda sotto le mura di Potenza, capoluogo della Basilicata, attraverso sentieri che si pensava impraticabili per tutti, salvo che per i camosci e le lepri selvatiche. Si pensi che Potenza non è né un villaggio, né un borgo: è una città di otto o novemila abitanti. Ebbene, vedendo questa banda che si sarebbe detto piombasse dal cielo, udendo il terribile nome di Taccone, queste otto o novemila anime rimasero sbigottite e non pensarono a resistere. Allora re Taccone spedì un messo in città, dando ordine a tutte le autorità civili, religiose e militari di presentarsi immantinente davanti a lui, sotto minaccia di mettere a morte le persone e di appiccare il fuoco alle case. Un’ora dopo si poté assistere ad uno strano spettacolo. I magistrati, preceduti dal clero e seguiti da tutto il popolo, si recavano a rendere omaggio ad un capo di briganti e inginocchiati con le mani giunte imploravano la sua pietà. Taccone li lasciò così un momento nella loro umiliazione, poi con la magnanimità di un Alessandro che rialza la famiglia di Poro, disse loro: ‘Alzatevi sciagurati! Non siete degni della mia collera. Sventura a voi, se fossi arrivato in altri tempi, ma ora che ho distrutto i miei nemici con l’aiuto della Santissima Vergine, il mio cuore si è aperto alla pietà: oggi è un giorno di festa e di trionfo per tutti i giusti e non voglio insudiciarmi col vostro sangue, benché le vostre infami opinioni mi persuaderebbero di versarlo. Non rallegratevi tuttavia, perché non sarete affrancati da ogni pena; per esservi ribellati al vostro re, per aver rinnegato il vostro Dio, pagherete fra un’ora il tributo che il mio segretario vi comunicherà. E ora rialzatevi, spedite dei messaggeri in città, che ci si prepari ad una festa degna della mia vittoria! Voi tutti qui presenti mi accompagnerete cantando inni di lode fino alla cattedrale, dove Monsignore intonerà un ‘Te Deum’ di ringraziamento all’altissimo per il trionfo delle nostre armate. Orsù, dunque alzatevi e andate!”. E tutto il popolo, cantando gli inni sacri in onore del bandito, con dei ramoscelli d’ulivo in mano, si diresse verso la cattedrale, dietro Taccone, che caracollava sul suo cavallo tutto adorno di sonagli, piume e nastri di seta. Dopo il ‘Te Deum’ e la riscossione del tributo, la banda si ritirò, portando con sé una preda più preziosa dell’oro e dell’argento. Entrando in città, il trionfatore, a testa alta, aveva gettato il suo sguardo attraverso le porte e le finestre fino in fondo alle case, come se cercasse qualcosa. Le donne che sono avide di ogni sorta di spettacoli, contemplavano quello, più curioso di ogni altro perché eccezionale: una giovinetta sollevò timidamente le imposte della finestra, mostrando attraverso il vetro, un viso di splendente gioventù e bellezza. Allora, il bandito fermò il suo cavallo e la fissò a lungo; aveva trovato quel che cercava. Come se avesse compreso di essere perduta, la ragazza arretrò di un passo e si coprì il volto con le mani. Taccone disse una parola a due dei suoi compari che entrassero nella casa. All’uscita della chiesa, trovò un vecchio ad aspettarlo; era il nonno della giovinetta. Il padre era morto. Proponeva a Taccone di riscattare la ragazza; a qualsiasi costo. ‘Ti sbagli buon uomo – gli disse questi – non faccio commercio di cuore. La tua ragazza è bella. L’amo. Voglio lei, non i tuoi soldi’. Il vecchio tentò di fermare Taccone ma fu respinto con un pugno. Si inginocchiò davanti al brigante, ma Taccone gli mise un piede sulla spalla e lo buttò per terra. Poi salì a cavallo. Gli fu portata la ragazza in lacrime. Lui la pose per traverso sulla sua sella, poi, al passo, senza che nessuno osasse opporsi a quel rapimento, uscì dalla città, portando via con sé quella vergine che non aveva conosciuto altri baci se non quelli della madre. Nessuno a Potenza sentì più parlare di lei. Il generale Manhes, all’inseguimento di Taccone, volle sapere cosa era avvenuto alla ragazza e interrogò prima di farlo impiccare un brigante della truppa che era caduto in mano sua. Costui aveva dichiarato che due giorni dopo il rapimento, Taccone, irritato con lei perché non la smetteva di invocare il Signore, di lamentarsi e di piangere, l’aveva uccisa, dicendo che una donna che non sapeva apprezzare la fortuna di essere la concubina di un uomo come lui era indegna di vivere. Il giorno dopo, il brigante disse al contrario che si era perfettamente adattata alla sua vita d’amante, che lo seguiva nelle sue scorribande e che era così venerata dalla banda che la chiamavano Maria Protettrice. Infine, ai piedi della forca, dichiarò di voler confessare tutta la verità sulla povera giovane. Disse che un giorno, quando stavano fuggendo inseguiti da Manhes, la poveretta era sul cavallo di uno dei banditi e svenne (o fece finta di svenire) e quello, impacciato da quel corpo immobile, l’aveva gettata per terra, bestemmiando orribilmente. A quale di queste tre versioni prestar fede? Probabilmente a nessuna. E’ però verosimile che fosse stata uccisa dal miserabile che l’aveva rapita, abbandonata in una macchia in preda ai lupi, oppure che fosse riuscita a fuggire e a nascondersi in qualche paese lontano. Nessuno riuscì a ritrovarla, per quante ricerche i suoi parenti facessero. La guerra volgeva a favore di Taccone, il quale decise di continuarla. Nella tregua dovuta alla assenza di Manhes, dopo la tassa imposta a Potenza, Taccone si diresse verso il castello del barone Federici”.
Sospendo un attimo la narrazione di Alexandre Dumas. Dai crimini compiuti a Potenza il brigante Taccone era passato a quelli del castello del barone Federici ad Abriola, ma la furia sanguinaria sua e quella di un altro celebre brigante che in quegli anni insanguinava parimenti la Basilicata, il capo banda Quagliarella, stavano facendo perdere del tutto la pazienza al Re ed al suo delegato per la lotta al brigantaggio al Sud, il generale Charles Antoine Manhes, uno degli eroi della battaglia di Austerlitz. Quest’ultimo non poteva essere sempre presente a Potenza, ma ad un certo punto ci tornò anche per vendicare altri infami crimini di Taccone e di Quagliarella. Il generale pose una taglia sui due capi briganti della Basilicata. In quel momento Taccone e Quagliarella furono braccati non solo dal generale francese ma anche dagli stessi sodali delle bande che guidavano, attratti dalla forte taglia posta dal generale francese Manhes sul capo dei due capi-banda. A questo punto, riprendo il discorso con le parole del grande romanziere Dumas.
“Malgrado una disperata resistenza, Taccone fu arrestato cinque mesi più tardi. Entrò a Potenza in modo ben diverso da quello che era stato il suo ingresso trionfale. Non cavalcava più un focoso destriero adorno di piume e di nastri di seta, ma un asino del quale teneva la coda invece che la briglia e portava in testa una sorta di mitra a due corni sulla quale era scritto a grandi lettere E’ QUESTO L’INFAME TACCONE. Due giorni dopo fu impiccato”.
Vengo dunque al terzo libro di Dumas dedicato al ciclo napoletano e che è di lunghezza tale da scoraggiare sul nascere anche i lettori più accaniti e resistenti. Ben 1754 pagine suddivise in due grossi tomi! Chi riesce ad andare avanti nella lettura viene però ripagato non solo dal fatto di godere di tante storie molto avvincenti, tanto più riportate attraverso la penna di uno dei più grandi romanzieri della storia della letteratura mondiale, quale Alexandre Dumas padre senz’altro è, ma anche dal fatto di poter penetrare nei più oscuri meandri di quella che è stata la, tuttora ancor pochissimo conosciuta, storia della Repubblica Partenopea. Anzi, mi sento proprio di aggiungere una specificazione; la vera storia. Anche in questa mastodontica opera letteraria Dumas parla, tutto sommato, molto di Potenza e dei suoi tragici e gloriosi eventi del 1799. Alla fine di questo scritto il lettore capirà meglio perché ho aggiunto quel ‘tutto sommato’. Bisogna andare al capitoletto su Nicola Addone, a pagina 1165.
“Sebbene i fatti di Potenza attengano più alla storia del 1799 che non allo specifico del racconto da noi intrapreso, il quale presenta ai suoi lettori, soltanto i fatti e le gesta dei personaggi che vi sostengono un ruolo, tuttavia, dal momento che tali fatti rispecchiano il carattere nefasto sia dell’epoca sia delle popolazioni fra cui si svolsero, dedicheremo loro un intero capitolo al quale peraltro essi hanno diritto per un duplice motivo: innanzitutto, per l’enormità della catastrofe, e in secondo luogo per il rovinoso influsso che il viaggio di Luisa (Sanfelice n.n.) a Salerno ebbe sulla vita dell’eroina della nostra storia (viaggio che portò alla rivelazione da parte di Michele del complotto dei Backer). Al suo rientro dalla serata in casa della duchessa Fusco, nel corso della quale erano stati letti i versi del Monti, era stato fondato il Monitore Napoletano e il pappagallo della duchessa, grazie ai suoi due maestri, Velasco e Nicolino, aveva imparato a gridare Viva la Repubblica! Morte ai tiranni, il generale Championnet aveva trovato a palazzo d’Angri un ricco proprietario terriero della Basilicata: Nicola Addone. Don Nicola Addone, come veniva chiamato al suo paese, in ossequio alla tradizione spagnola, abitava a Potenza ed era intimo amico del vescovo della città, monsignor Serrao. Questi, calabrese di origine, in seno all’episcopato godeva fama di erudito – aveva infatti pubblicato opere assai apprezzate – e di uomo dalla vita esemplare, improntata alla carità evangelica. Dotato di senso della giustizia e di generosità d’animo, egli aveva salutato la libertà come l’angelo promesso dai Vangeli e non si era limitato a condividere i fermenti liberali e i principi rivoluzionari, ma aveva anche contribuito a divulgarli. L’azzurro di quel bel cielo repubblicano, però, appena sorto, cominciava già ad oscurarsi. Da ogni parte si organizzavano bande di sanfedisti, col pretesto della fedeltà ai Borboni, ma, in realtà, miranti al saccheggio ed all’assassinio. Monsignor Serrao, dopo aver compromesso i suoi concittadini con l’esempio e con i consigli, aveva deciso di provvedere almeno alla loro sicurezza. Pensò allora di far venire dalla Calabria, cioè dal suo paese d’origine, una guardia composta di quegli uomini d’arme noti come campieri, discendenti dei banditi che all’epoca del feudalesimo si mettevano al soldo degli odi e delle ambizioni dei baroni. Il povero vescovo credeva di trovare in quegli uomini, suoi conterranei, soprattutto in virtù dell’ottima paga, dei difensori coraggiosi e devoti. Ma sfortunatamente, qualche tempo prima, egli aveva censurato la condotta di uno di quei cattivi preti che abbondano nelle province meridionali e che sperano sempre di sfuggire agli sguardi dei loro superiori confondendosi in mezzo agli altri. Quel prete si chiamava Angelo Felice Vinciguerra e proveniva dallo stesso villaggio di uno dei due capi dei campieri, di nome Falsetta, mentre il secondo si chiamava Capriglione. Durante l’infanzia il prete era stato amico di Falsetta e adesso riprese i suoi contatti con lui. Gli fece capire che la paga che gli dava monsignor Serrao, per alta che fosse, non era neppure paragonabile a quanto avrebbe potuto ricavare dai tributi o dal saccheggio nel caso che Capriglione e lui, invece di dedicarsi al mantenimento dell’ordine, fossero riusciti, a capo dei loro uomini, a impadronirsi della città. Falsetta, trascinato dai consigli del Vinciguerra, parlò con il suo compagno della proposta e questi accettò. Gli altri – è facile capirlo – non fecero resistenza là dove i loro capi avevano ceduto. Una mattina monsignor Serrao, mentre era ancora a letto, vide aprirsi la porta e comparire sulla soglia della sua camera, il fucile alla mano, Capriglione, che gli disse senza tanti preamboli: ‘Monsignore, il popolo vuole la vostra morte”. Il vescovo alzò la mano destra nel gesto di chi benedice anche il suo assassino e, in effetti, disse: ‘Benedico il popolo’. Senza neppure lasciargli il tempo di aggiungere alcunché a queste evangeliche parole, il bandito puntò il fucile e fece fuoco. Il vescovo, che si era sollevato per benedire anche il suo assassino, ricadde morto, con il petto trapassato da parte a parte da una pallottola. Al rumore della fucilata, il vicario del vescovo accorse, e, poiché manifestava la sua indignazione per l’assassinio che Capriglione aveva appena commesso, venne ucciso a sua volta con una coltellata. A questo duplice assassinio seguì quasi immediatamente la morte di due fra i proprietari più ricchi e più noti della città, i fratelli Gerardangelo e Giovanni Siani. A dar credito alla voce secondo cui l’assassinio di monsignor Serrao era stato commesso da Capriglione, ma su istigazione del prete, intervenne il fatto che, il giorno dopo il delitto, il suddetto Vinciguerra si unì alla banda di Capriglione e contribuì con essa a gettare Potenza nel sangue e nel lutto. Allora, liberali, patrioti, repubblicani, tutti coloro che per un motivo o per l’altro condividevano le nuove idee furono colti da grande terrore, che si accrebbe ancor più quando si sparse la voce che, nel giorno in cui si doveva celebrare la festa del Sangue di Cristo, ossia il giovedì successivo alla Pasqua, i briganti, ormai padroni della città, avrebbero massacrato nel bel mezzo della processione non solo tutti i patrioti ma tutti i ricchi. Ora, il più ricco fra coloro che si sentirono minacciati da tale diceria, e, al tempo stesso, uno dei cittadini più rispettabili della città, era proprio quel Nicola Addone, amico di Monsignor Serrao, che Championnet trovò ad aspettarlo rientrando dalla serata in casa della duchessa Fusco. Da uomo coraggioso e risoluto quale era, egli aveva deciso, d’accordo con il fratello Basileo Addone, di liberare la città da quella masnada di banditi. Fece dunque venire a casa sua quelli tra gli amici che riteneva più ardimentosi. Fra di essi c’erano tre uomini dei quali la tradizione orale ha conservato i nomi, ma che non sono citati in nessun libro di storia, Giuseppe Scafanelli (ritengo che il cognome sia Scafarelli e che il Dumas abbia riportato il nome in maniera errata n.n.), Jorio Mandiglia e Gaetano Maffi (errore di trascrizione dello scrittore, che nell’altro libro aveva riportato esattamente questo cognome come Maffei, famiglia di antica origine potentina n.n.). Della cospirazione facevano parte altri sette o otto uomini, ma ho interrogato invano i più vecchi abitanti di Potenza per sapere chi fossero. Radunati in casa di Nicola Addone, con le finestre e le porte sprangate, questi patrioti decisero di annientare in un colpo solo Capriglione, Falsetta e tutta la loro banda, dal primo all’ultimo. A tale scopo stabilirono di ritrovarsi armati, metà nella casa di Addone e metà nella casa vicina. I banditi stessi, come se fossero stati d’accordo con loro, fornirono ai patrioti l’occasione opportuna. Imposero alla città di Potenza un tributo di tremila ducati, lasciando ai suoi abitanti il compito di ripartirselo e di reperire i fondi purché venisse pagato entro tre giorni. Il tributo venne raccolto e depositato pubblicamente nella casa di Nicola Addone. Un calzolaio, di nome Gaetano Scolletta, ma soprannominato Sorcetto, si incaricò di portare al domicilio dei banditi l’invito di andare a ritirare in casa di Addone la parte spettante a ciascuno. Dovevano presentarsi ciascuno ad un’ora diversa e non arrivare in massa, il che avrebbe reso difficile l’esecuzione del progetto. Chiacchierando con i banditi, Scolletta doveva, secondo le istruzioni ricevute, indicar loro come erano disposte le stanze aggiungendo, fra molte altre cose, che la cassa per difenderla dai ladri, era stata collocata nella parte più inaccessibile dell’abitazione. Nel giorno stabilito, Nicola Addone fece nascondere in una sorta di stanzino antistante, la camera nella quale, secondo le indicazioni di Scolletta, doveva trovarsi il cassiere, due vigorosi mulattieri al suo servizio, Laurito e Saraceno, piazzati ognuno al fianco di una porta bassa, sotto la quale era impossibile passare senza chinare il capo e muniti di un’ascia a testa. Questi due attrezzi, dotati di solidi manici, erano stati acquistati il giorno precedente e affilati per l’occasione. Quindici minuti prima dell’ora convenuta, tutto era pronto, e ognuno al posto che gli era stato assegnato. I primi banditi arrivarono uno per volta e vennero man mano fatti entrare. Dopo aver percorso un lungo corridoio arrivarono allo stanzino in cui erano appostati Laurito e Saraceno. Questi con un colpo solo, abbattevano il loro uomo con la prontezza e la precisione con cui un macellaio abbatte un bue. Nello stesso istante in cui il bandito crollava a terra, due altri domestici di Addone, Piscione e Musano, aprivano una botola, attraverso la quale il cadavere finiva in una scuderia sottostante. Non appena sparito, una vecchia, impassibile come una Parca, usciva da una camera vicina con un secchio d’acqua in una mano e una spugna nell’altra, lavava il pavimento e tornava nella sua camera con il mutismo e la rapidità di un automa. Infine arrivò il turno di Capriglione. Il fratello di Nicola lo accompagnò come per fargli strada nel labirinto della casa, ma, a metà del corridoio il bandito inquieto e sospettoso, ebbe senza dubbio un presentimento e fece per tornare indietro. Allora senza insistere e senza alcun alterco, nel momento in cui si voltava, Basileo Addone gli immerse il suo pugnale nel petto fino al manico. Capriglione cadde senza un grido. Basileo lo trascinò nella stanza più vicina e, dopo essersi assicurato che fosse proprio morto, ve lo chiuse dentro e si infilò tranquillamente la chiave in tasca. Quanto a Falsetta, era stato tra i primi ad avere la testa spaccata. Sedici dei briganti, compresi i loro capi, erano già stati uccisi e gettati nel carnaio, quando gli altri vedendo che i loro compagni entravano ma non uscivano, formarono un gruppetto e guidati da Gennarino, figlio di Falsetta, arrivarono per bussare alla porta di Addone. Ma non ebbero nemmeno il tempo di farlo. Quando furono a circa quindici passi dalla casa, Basileo Addone, che stava di vedetta ad una finestra, con la stessa mano ferrea e il colpo d’occhio con cui aveva colpito Capriglione, spedì una pallottola in piena fronte a Gennarino. Quel colpo di fucile diede il via a un’orribile mischia; i congiurati, rendendosi conto che era giunto il momento in cui ognuno doveva pagare di persona, si precipitarono in strada e, questa volta a viso scoperto, attaccarono i briganti con una furia tale che tutti rimasero a terra dal primo all’ultimo, per un totale di trentadue cadaveri. Questi durante la notte furono portati via e allineati l’uno accanto all’altro sulla Piazza del Mercato, cosicché all’alba tutta la città poté avere sotto gli occhi quel sanguinoso spettacolo. Ma, fin dal giorno prima, Nicola Addone era partito per andare a raccontare a Championnet quello che era successo e a chiedergli di mandare a Potenza una colonna francese per ripristinarvi l’ordine e opporsi alla reazione. Il generale, dopo averlo ascoltato, certo dell’urgenza di tale richiesta, aveva dato incarico a Salvato (l’ufficiale Salvato Palmieri, di nascita meridionale, uno dei conquistatori di Napoli n.n.) di organizzare la colonna destinata a Salerno affidandone il comando al suo aiutante di campo, Villeneuve.
(…)
Il secondo era il cittadino Victor Mejean, che il Direttorio aveva di fresco nominato al posto di Thiébault, promosso da Championnet ad aiutante generale davanti a Porta Capuana, senza curarsi della raccomandazione che tale carica venisse conferita al suo aiutante di campo Villeneuve, in quel momento impegnato a proteggere i patrioti di Potenza, e in particolare Nicola e Basileo Addone, i due principali ideatori dell’ultima strage”.
CONSIDERAZIONI E CONCLUSIONE
Sono molte e di vario genere le riflessioni che mi sento di dover fare dopo questo lavoro di ricerca e di studio. La prima riguarda la figura di Dumas (padre), lo scrittore francese più popolare e più venduto nel mondo. Proprio qualche giorno fa, l’inserto del venerdì del quotidiano ‘Repubblica’ dedicava uno speciale alla figura di Alexandre Dumas padre ed ho tratto questo spunto:
“E tuttavia rielaborando la tragedia della Repubblica Partenopea giacobina del 1799, Dumas scriverà il più grande dei romanzi mai dedicati da uno straniero a Partenope: La Sanfelice” (Anno 1864, pagine 1750, Adelphi editore, Milano, 1999). Il successo che il libro ottenne in Francia convincerà Alexandre Dumas a tornarsene in patria, dopo più di tre anni passati a Napoli e dintorni per seguire un’altra rivoluzione, figlia, da molti punti di vista, di quella giacobina napoletana; il Risorgimento italiano. Dumas andò via da Napoli a malincuore.
Un’altra considerazione che va fatta, in riferimento ai fatti di Potenza, è che Dumas scrive di quei fatti prima che ne scrivesse lo storico potentino Raffaele Riviello e questo, suppongo, è un fatto che risulterà strano, soprattutto per chi crede che il potentino Riviello sia stato il primo a narrare quelle vicende, che così fortemente hanno determinato la storia ed il futuro della nostra città. Non solo. Il grande scrittore francese scrive dei fatti di Potenza 1799 inserendoli in un grande affresco storico, cosa che risulterebbe impensabile per Riviello, ma è solo in quel grande affresco dumasiano che si può apprezzare e ‘pesare’ veramente l’importanza che quei fatti ebbero. Intendo proprio i fatti potentini. Questa possibilità è preclusa alla storiografia locale, che è angusta e spesso non solo locale, ma localistica. Leggendo Pedìo o il Riviello, i nostri storici locali, quella importanza non si coglie o, quanto meno, la si coglie solo in minima misura. In altre parole, nella storiografia locale non si sente, io almeno non l’ho sentito, il profumo della gloria, della ‘gloire’, che invece ho respirato nel grandioso affresco del Dumas, che è il grandioso affresco non solo di un infaticabile storico, ma anche il grandioso affresco storico di un non meno grandioso romanziere. E mi tengo solo ai fatti potentini. Il profumo della gloria potentina, che avvolse Potenza nel periodo 1799 (ma anche oltre e cioè fino alla caduta di Murat nel 1815), pur in mezzo a episodi tutt’altro che gloriosi (penso alla triste svolta di Nicola Addone) e tragici, perché le rivoluzioni, quelle che cambiano la Storia, non sono mai esenti da tragedie e spargimenti di sangue, è storia, anzi è Storia. Dumas, sulla scia di Henry Gregoire e di Forges Davanzati consacra questa gloria e questa nostra storia, che può sembrare solo storia locale, ma che tale non è ed è proprio Dumas a fornirci la prova che questa storia locale è tutt’uno con i grandi scenari che cambiano il mondo. Cercherò di rendere ancor più evidente questo dato, ovviamente per quel che riguarda Potenza ed il tributo di sofferenze e di sangue che Potenza dette in quel cruciale periodo della storia non solo potentina e meridionale, ma italiana ed europea. Lo storico che si occupa di fatti locali, o presunti solo tali, deve essere capace, in altri termini, di collegare le storie locali a quelle che si svolgono sincronicamente negli scenari più grandi; statuali, nazionali e continentali o mondiali. E’ in questa capacità che la storia locale smette di diventare localistica e diventa, anche se solo come una nota a piè di pagina, parte della Storia mondiale ed europea, della storia nazionale e statuale, insomma, della Storia con la S maiuscola. A Potenza questa situazione si è ripetuta quattro o cinque volte nella più che bimillenaria storia della città ed i fatti potentini del periodo 1799-1815 costituiscono uno di questi quattro o cinque momenti in cui la Storia si è affacciata in questa antica città. Un’altra riflessione che mi sento di dover fare e che merita di essere sviluppata maggiormente in uno scritto a parte è il peso che la Francia ha avuto sulla storia di Potenza. Non voglio fuoriuscire dal periodo qui preso in esame, ma anche rimanendo al solo periodo 1799-1815 non si può fare a meno di notare le personalità della storia francese che hanno, in un modo o nell’altro, avuto un peso ed una parte nella storia della nostra Potenza. A cominciare, proprio dal grande Dumas, che, come riferisce, negli scritti qui riportati, venne a Potenza per cercare testimoni di quei fatti e per apprendere particolari inediti che erano andati perduti. A Potenza chiese ai più vecchi chi fossero stati gli altri compagni di Nicola e Basileo Addone, chiese i nomi di quei coraggiosi che consumarono quella tremenda vendetta in nome non solo della parte giacobina ma dell’intera città, oltraggiata in modo infame dall’assassinio del suo immenso vescovo. Purtroppo, non riuscì ad avere quei nomi, ma, oltre a tutto ciò che scrisse nei suoi libri, il Dumas onorò Potenza ed il suo ruolo nella storia della Repubblica Partenopea anche facendo visita alla nostra città. Dumas fu tra le grandi personalità francesi che onorarono Potenza o che, comunque, ebbero un peso fortissimo sulla storia della nostra città. Anzi, che hanno, perché tantissimi non conoscono per niente, ancora oggi, questi grandi personaggi della Storia che ebbero una interazione positiva con Potenza. E come non ricordare, ancora una volta, l’abate Henry Gregoire, lo stesso Championnet, che cercò di proteggere i patrioti potentini inviando una truppa con a capo il suo aiutante Villeneuve? Questo particolare di Villeneuve, ad esempio, non mi sembra di averlo mai appreso prima di conoscere le opere di Dumas del periodo napoletano. Ma occorre ricordare non dico altri nomi dimenticati, ma altri nomi grandi della storia francese, ancora, del tutto o in gran parte, sconosciuti a Potenza come Charles Antoine Manhes, a cui tuttora è dedicata una via cittadina di cui gli attuali residenti di Potenza non conoscono la genesi e il beneficiario della intestazione. Manhes, voglio ricordarlo, fu colui che ripulì la Basilicata e buona parte del Sud dall’infestazione brigantesca ed aveva il suo quartiere generale della sua lotta al brigantaggio meridionale proprio a Potenza. Manhes vendicò l’onore offeso di Potenza eliminando il brigante Taccone, come racconta Dumas. Ecco perché dopo Porta San Luca c’è quella via a lui dedicata. Grande generale dell’Armata napoleonica, fu tra i protagonisti principali della famosa, anzi ‘mitica’, vittoria di Napoleone ad Austerlitz contro Austria e Russia. E che dire, sempre per rimanere a quel periodo 1799-1815, del re Giuseppe Bonaparte, che volle ripristinare il valore della storia e della geografia riportando a Potenza il capoluogo regionale, che dire di un altro grande generale francese, Guillaume Philibert Duhesme, un altro dei fondatori della Repubblica Partenopea, che nel decennio napoleonico, appena a Potenza fu restituito il capoluogo regionale, propose a Giuseppe Bonaparte che Potenza diventasse la seconda capitale del Regno, dopo Napoli? Una ulteriore considerazione riguarda il rilievo oggettivo della importanza dei fatti potentini in rapporto ai fatti delle altre città del Regno, Napoli, ovviamente esclusa, per come emerge nei libri di Dumas. Oltre a Potenza, un certo rilievo il Dumas lo attribuisce anche ai fatti di Crotone e di Altamura. In tutte e due queste città ci fu un tributo di sangue ben più rilevante di quanto occorse a Potenza. Tutte e due queste città furono vittime e martiri della furia sanfedista sotto i colpi dell’esercito irregolare di Ruffo. Fu quest’ultimo a guidare personalmente gli assedi ed i saccheggi contro le popolazioni di Crotone e di Altamura. In altri due casi rilevanti, Andria e Trani, abbiamo la situazione contraria. In quelle due città furono le truppe francesi ad andare all’assalto, con tutto ciò che gli assalti costarono alla popolazione civile. Quindi, in quattro dei casi passati a rassegna dal Dumas di singole città del Regno, abbiamo due assedi da parte dei sanfedisti e due assedi da parte dei francesi, insomma in tutti e quattro i casi si trattò di operazioni militari vere e proprie. Nei casi rilevanti sui quali il Dumas si sofferma e da quello che si può evincere da una attenta lettura delle 1750 pagine della ‘Sanfelice’, si direbbe che delle cinque città più protagoniste, in un modo o nell’altro, Potenza, Crotone, Altamura, Andria e Trani, solo a Potenza ricorre una tipologia di protagonismo del tutto atipica e diversa. Solo a Potenza, tra le città la cui storia è più rilevante fuori di Napoli nel periodo della Repubblica Partenopea, tale rilevanza dei fatti non è determinata da assedi o da eserciti assedianti, ma da altre situazioni. Quale fu la specificità potentina del 1799? E’ un discorso difficile, che richiederebbe una trattazione ad hoc, ma a me sembra di poterla scorgere nella grande omogeneità tra clero, borghesia cittadina e popolo, benché una parte del popolo fosse ancora influenzabile dal conte Loffredo, un Casato che non ha quasi mai portato niente di buono per Potenza. Ma non solo. A Potenza c’era una grande icona della Chiesa ed era, incredibilmente, anche una grande icona giacobina. Un altro elemento suggerisce la particolarità della situazione potentina nel 1799. Credo si possa dire senza ombra di dubbio che proprio la Basilicata era, all’epoca, la provincia del Regno più giacobina. Basti pensare ai nomi del grande teorico della Repubblica Partenopea che era Mario Pagano, di Brienza, in provincia di Potenza, basti pensare al montalbanese Francesco Lomonaco e ad altri. Potenza era il luogo più giacobino della provincia più giacobina del regno, quella che Vincenzo Cuoco definì ‘il dipartimento più democratico della Terra’. Ed i patrioti potentini e lucani non si limitarono allo scenario della propria siepe. Potentini ed aviglianesi, gli aviglianesi di Palomba, erano tra i soccorritori della sfortunata Altamura e sul patibolo a Matera, eretto nel 1800, c’erano solo potentini. Ruffo nella sua marcia vittoriosa per la presa di Napoli e per la riconquista del regno a favore di Ferdinando di Borbone non passa per Potenza ma si ferma a Melfi. Ai briganti, che stanno inevitabilmente con i sanfedisti, Potenza o concede poco, come col brigante Sciarpa, delegato dal cardinale Ruffo a prendere Potenza, oppure riserva solo trattamenti terribili, come a Taccone (sebbene con la parentesi dei fatti di quel giorno in cui Taccone rapì la bella ragazza potentina) o addirittura crudeli, come in casa Addone contro i briganti calabresi assassini del vescovo Serrao. E che dire dei sacerdoti liberali (e/o giacobini) di Potenza e del fatto che solo a Potenza, fra tutte le città d’Italia, c’è una via dedicata alla memoria di quei preti così ‘speciali’, se così posso dire, per quel tempo ed ancora di più per il contesto meridionale ed italiano di quel tempo? Ovviamente, l’epopea repubblicana di Potenza del 1799 contò in modo determinante, nonostante quel che la storiografia locale regionalistica asserisce in senso contrario, sulla designazione di Potenza a nuovo capoluogo provinciale cioè, per dirla in termini odierni, regionale.
PINO A. QUARTANA
Nell’illustrazione; Alexandre Dumas (padre)