Il nome di Potenza non è mai stato associato alla diaspora ebraica, eppure Potenza è stato in Basilicata un centro che ha avuto anche una certa presenza ebraica. Non come Venosa, il maggior luogo di presenza ebraica in questa regione, ma non proprio il nulla. Dopo Venosa, fra Tardoantico e Alto medioevo, sono documentate comunità di ebrei anche in altri centri della Basilicata, come a Potenza, a Grumento, a Matera e, forse, anche a Lavello. Certo, le notizie sono tuttora scarsissime. Ma, anche se a noi non sono giunti documenti o altre prove evidenti, una certa presenza deve esserci stata. Nelle circa novanta epigrafi rinvenute a Potenza, una soltanto è ebraica. Si tratta di un frammento calcareo, che era stato utilizzato per il muro di sostegno di un terreno sito in Via Appia, 163 e che reca inciso un candelabro a sette bracci; a destra dello stelo è incisa una I, lettera superstite di una iscrizione che doveva trovarsi probabilmente racchiusa tra due candelabri simmetrici. Il frammento indicava forse l’area sepolcrale dei giudei di Potenza nei secoli V-VI, epoca a cui rimanda la forma del candelabro, la menorah, con riscontri nelle catacombe ebraiche di Venosa. L’appartenenza del pezzo a Potenza non sembra soggetta a dubbi, anche se si deve rilevare che non si conoscono il luogo e le modalità del suo rinvenimento. C’è un’altra notizia sulla diaspora ebraica a Potenza secoli più tardi, nel Basso Medioevo. Forse era un neofita il Guglielmo de Habraam che nel 1204 fece da testimone alla vendita di un terreno eseguita da un Giovanni in favore del figlio Elia. Originari di Potenza erano, con tutta probabilità, anche i due neofiti Germano e Guglielmo da Potenza, abitanti a Salerno, ai quali, nel 1316, Re Roberto d’Angiò rilasciò un permesso di porto d’armi proibite.
Ancor più certo, invece, è che, nei primi decenni del 1300 c’era qui da noi, a Potenza, una comunità ebraica, ricostituitasi dopo la crisi angioina, attiva nella tintura dei tessuti. In un ricorso presentato al Re nel 1322, il vescovo di Potenza, infatti, disse di possedere, insieme alle case nel borgo e a tutte le botteghe della piazza, il macello, la decima sulla baiulazione e la tintoria dei giudei (tintoria iudaica civitatis predicte).
Passano diversi secoli e ‘delli giudei’, cioè degli ebrei della diaspora non si sente più parlare, né a Potenza, né nel resto del Regno. La spiegazione di questa improvvisa scomparsa degli ebrei dal Sud è nel bando di Ferdinando “il Cattolico”, il quale procedette, anche nel regno napoletano, all’espulsione degli ebrei, come già in Aragona ed in Castiglia; alle comunità israelite del sud Italia che raggiungevano le 90.000 anime – secondo lo storico Francesco Renda – toccò la diaspora o il ridursi a “marrani” o praticare forme di “criptogiudaismo”, al pari dei 90.000 ebrei che il Re Giovanni II accettò di stanziare in Portogallo. Agli inizi degli Anni ’90 dello scorso secolo sono stati rintracciati nel nord del Portogallo i discendenti di quei marrani, i quali nelle festività ebraiche ancora praticavano, di nascosto, i riti della tradizione. C’è un bellissimo film sugli ebrei banditi dalla Spagna cattolica e su quelli che potevano rimanere in quel Paese solo se si fossero convertiti al cristianesimo. Quindi, per tornare specificamente alla storia degli ebrei a Potenza, si rividero ebrei a Potenza solo durante la Seconda Guerra Mondiale, cioè quando il fascismo li confinò in Basilicata (anche in Basilicata). Carlo Levi fu il confinato ebreo più famoso, ma di tutti i centri della Basilicata fu proprio Potenza ad ospitarne, per così dire, di più; ben quarantasette. Erano ebrei tedeschi o austriaci come Abraham Hilde, nata a Colonia, Germania, nel 1905 e che fino al 01.03.1943 risultava confinata a Potenza o come Clara Bauer, nata in Jugoslavia, nel 1889, a Potenza nel 1941 e 1942 o come Walter Behrens, ebreo tedesco nato a Karlsruhe, Germania, nel 1901 e il 21.03.1943 risultante confinato, o deportato, se vogliamo, a Potenza. Oppure come l’ebreo ungherese Bela Benitz, come Georg Boss, ebreo tedesco di Kartaus, ex austriaco, del 1879 o come Siegfrid Buchsbajum, ebreo tedesco. Ce ne furono altri quaranta e di loro non se ne seppe, almeno a Potenza, più niente. Grazie ai documenti del Centro Studi Storico-Militare ‘Salinardi’ (costituitosi a Potenza nel 2009) sappiamo però molte cose sulla loro vita a Potenza negli anni del confino.
“In Basilicata vennero internati forzatamente molti ebrei. Nel cimitero di Potenza un terreno a parte ha raccolto le tombe degli ebrei che abitavano in città. Commuove leggere qua e là sulle lapidi quei nomi che evocano una fede, richiamano il segreto di tante persone costrette a vivere esiliati in patria. La memoria storica delle leggi razziali e degli ebrei loro innumerevoli vittime, rivive nelle liste degli internati, relegati nei territori interni della Lucania. … – i nomi di “persone” segnate dalla qualifica “ebreo”, “di razza ebraica”, ricacciate in esilio nei più sperduti paesi lucani”.
Gli ebrei confinati nel capoluogo lucano appartenevano ad un buon ceto sociale. Vennero alloggiati alcuni in un buon albergo, il “Lombardo”, altri in buone pensioni. Ebbero normali rapporti con gli abitanti del capoluogo, furono autorizzati ad impartire lezioni private di lingua tedesca e strinsero rapporti di amicizia anche con i più autorevoli notabili. Furono evitati soltanto da chi, non avendo la tessera del fascio, temeva di compromettersi avvicinandosi ad essi. Gli ebrei relegati a Potenza, specie i più giovani, si trattenevano abitualmente al “Lombardo” dove ricevevano i loro amici potentini. Questi ebrei non rimasero molto a Potenza. Furono quasi tutti tedeschi, polacchi e austriaci riparati in Italia. Nel 1942 i tedeschi di Hitler ne pretesero la consegna. Come furono i rapporti fra i potentini e questi figli di Israele? Furono abbastanza buoni.
“Gli internati da noi furono accettati e rispettati, considerati compagni di sventura da accogliere ed aiutare; che anzi molti lucani ritennero un onore entrare con loro in amicizia”.
Anche la Chiesa potentina, allora retta da quel grande vescovo che fu Bertazzoni, si prodigò molto per alleviare le difficoltà e le sofferenze dei confinati ebrei. Bertazzoni scrisse alla S. Sede, o a vescovi, al senatore Giampietro di Brienza, ad altri, religiosi, politici, istituzioni, per ottenere un trasferimento, un sussidio governativo, un avvicinamento alle famiglie, o solo un trattamento umanamente migliore. Il vescovo mantenne stretto e cordiale collegamento epistolare col vescovo di Campagna (dov’erano numerosi i confinati ebrei, aiutati anch’essi da quel prelato al limite del possibile), il conventuale mons. Giuseppe Palatucci, zio di quel commissario Palatucci (ricordato anche in un film televisivo), il quale salvò, durante il suo servizio, molti ebrei e pagò quest’audacia con la vita, dichiarato per questo “giusto di Israele”. Dal carteggio si leva un coro di invocazioni: alle copie di istanze rivolte al Ministero dell’Interno ed affidate alla raccomandazione del vescovo, si avvicendano lettere personali e confidenziali, doloranti e fiduciose, contrappuntate da lettere di gratitudine nei pochi casi di esito felice.
“E’ un epistolario che trasuda lacrime e sangue, – vi si legge – dolori ed umiliazioni, che lascia intuire molto più di quanto dica, con storie umane accennate e non risolte, con lettere incalzanti dove si invoca accoratamente aiuto rimasto spesso senza esito. Scorrono le liste di nomi, uomini, donne, bambini, famiglie, anziani, malati, professionisti di livello, gente umile, indicati come “di razza ebraica”, “internata come straniera in Italia”. Volti umiliati, dignitosi nella povertà, nella richiesta d’aiuto, emergono da quei fogli ingialliti e dalle righe di documentate, umanissime istanze indirizzate ad un Ministero dell’Interno spesso sordo all’ascolto, per ottenere un trasferimento, una licenza per visita medica in Ospedale, un aumento di sussidio governativo. Dopo ogni lettera rimasta senza risposta, dopo ogni intervento senza esito, una volta chiuso un fascicolo senza risultati, quei volti, quei nomi, sembrano scomparire nel nulla, nel silenzio d’una corrispondenza che, nella oscurità della guerra e della sconfitta, sembra svanire nella notte del tempo. Sono rarissimi i casi nei quali l’ultima lettera d’un fascicolo racconti un arrivo a destinazione nella sede desiderata. Spesso risulta negato un trasferimento a donne d’una certa età, indigenti e malate, perché la Polizia o l’Autorità militare si oppongono alla revoca del provvedimento di internamento. Ci si domanda come donne sole, malate ed anziane, potessero essere così tanto pericolose da non potersi trasferire altrove”.
PINO A. QUARTANA
Nella foto; l’unica iscrizione ebraica rinvenuta a Potenza.