Giovanni De Gregorio, detto il Pietrafesa, fu il più importante pittore lucano del 1600. Nacque in una famiglia molto modesta. Il nome d’arte gli provenne dal paese natio, l’odierna Satriano di Lucania, che nell’anno della nascita del pittore (il 1579) si chiamava appunto Pietrafesa. La data della sua nascita è attestata da un documento notarile del 1595 nel quale si certifica il suo alunnato artistico cominciato a Napoli, ancora quindicenne, e conclusosi sei anni dopo presso la bottega di Fabrizio Santafede, uno tra i primissimi pittori della scuola napoletana tra 1500 e 1600 e, quindi, tra i primissimi artisti dell’intero Regno. Durante quel periodo nella bottega del Santafede il pittore lucano andava spesso a visitare la Pinacoteca del Principe Matteo di Capua e rimaneva spesso incantato davanti al “Cristo” di Sebastiano del Piombo. Il Santafede si muoveva nell’ambito della corrente del tardomanierismo che propendeva già verso le forme severe e verso i rigidi canoni estetici che influenzarono l’arte pittorica di quella fase storica in Italia in conseguenza del Concilio di Trento. Dal 1579, anno della sua nascita, fino al 1594 ed oltre ancora fino al 1608 non ci sono notizie di opere sue. I critici e i pochi studiosi del’arte lucana e meridionale di quel secolo ancora si stanno interrogando su questo fatto che dovrebbe apparire strano o inconsueto, tenendo pure conto che in quei tempi si diventava adulti molto presto, sarebbe a dire del fatto che la prima opera firmata dal Pietrafesa vide la luce solo nel 1608, cioè quando l’artista aveva già 29 anni. Cosa abbia fatto dal 1594 al 1608 ancora non è chiaro. Nel 1608, finalmente il Pietrafesa si rivela pubblicamente come pittore e, come si diceva poc’anzi, firma la sua prima opera. E’ la bellissima ‘Pietà’, che si trova (e si è sempre trovata) nella Chiesa di San Francesco a Potenza. I suoi principali committenti erano dell’Ordine Francescano. Tornato in Lucania dopo la formazione napoletana, il Pietrafesa si stabilì sia nel suo paese d’origine che a Pignola, dove sposò una donna del paese. Gli ultimi lavori sono datati tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta del 1600 (come la Crocifissione con San Domenico, del 1653, per la Chiesa delle Domenicane a Matera). Morì nel 1656, forse per la peste che si era diffusa nel Potentino in quell’anno. Il corpo delle opere del Pietrafesa vanta poco più di trenta opere eseguite nel cinquantennio 1608-1653 e disseminate in numerose località della Lucania, della provincia di Salerno (una a Salerno) e dell’Alta Calabria, le zone dove operò. In questo corpo di trenta e poco più opere ci sono le opere potentine. Potenza è di tutte le località dove si trovano tele del Pietrafesa, quella dove se ne trovano di più; ben cinque. Ma non solo. In pratica, chi volesse conoscere, in particolare, la fase ancora giovanile dell’artista lucano non avrebbe che da scegliere Potenza come unica meta del viaggio perché tutte le opere pietrafesane del primo decennio sono opere potentine. O quasi. Tutte opere potentine. Come si è appena detto, sono ben cinque. Andando in ordine cronologico, la prima è del 1608, la ‘Pietà’ in San Francesco. Dal 1608 al 1612 il Pietrafesa opera solo a Potenza. La seconda opera potentina è il ‘Sant’Antonio’ firmato e datato pure 1608 nella chiesetta di Sant’Antonio La Macchia, boscosa zona cittadina nella parte estrema est della città. Nella stessa chiesetta si trovava anche la terza opera potentina; il ‘San Francesco’. Queste due opere, il ‘Sant’Antonio’ ed il ‘San Francesco’ oggi non si trovano più nella chiesetta di zona Sant’Antonio La Macchia, ma in una chiesa moderna (anche se dall’aspetto esteriore non così moderna come certe chiese moderne farebbero pensare); la Chiesa della Beata Vergine del Rosario, anch’essa situata nella parte est della città, ma in una posizione meno periferica rispetto alla vecchia chiesetta del 1500 incastonata nel romantico Parco di Sant’Antonio La Macchia. La quarta opera potentina è la ‘Madonna dei Mali’, che è sempre stata nella Chiesa della Trinità, ma che ora si trova al Museo Archeologico Provinciale di Viale Lazio. La quinta è la ‘Annunciazione’ e si trova a San Michele Arcangelo. Vediamo ora di conoscere più da vicino queste cinque opere potentine del Pietrafesa attraverso il giudizio di alcuni critici e storici dell’arte che si sono occupati dell’arte in Basilicata. Una considerazione che forse tutti gli esperti di pittura potrebbero condividere è che nella fase più antica della attività artistica del Pietrafesa (che è sostanzialmente la parte potentina) si nota un certo pathos espressivo: opere come la ‘Madonna dei Mali’ e la ‘Pietà’ in S. Francesco a Potenza rappresentano una religiosità autentica e sentita nelle forme del manierismo che ricordano dipinti toscani e marchigiani e che palesano la dipendenza del pittore dalla lezione manierista di Fabrizio Santafede, il suo maestro. Una piccola parentesi prima di inoltrarci in questi giudizi. Sempre nell’iniziale periodo potentino, il Pietrafesa dipinse degli affreschi nel Chiostro di San Francesco. Questi affreschi sono andati purtroppo perduti (come tante altre cose di Potenza e per varie cause; terremoti, guerre, stupidità umana ecc. ecc.), ma nel 1700 questi affreschi in San Francesco dovevano ancora esserci, tanto è vero che il De Dominici (che era un po’ il Vasari del Regno di Napoli con la sua opera “Vite dei Pittori, Scultori, ed Architetti Napolitani”, pubblicata a Napoli tra il 1742 ed il 1745) ne parlava ancora. Bernardo De Dominici li descriveva in questi termini:
“Vedendosi nella nominata Città di Potenza il chiostro de’ Padri Conventuali dipinto con tal maestria, e bellezza, che i Professori medesimi ne cantano le laudi, asserendo esser ben intense queste pitture de’ precetti dell’arte, e soprattutto, elle son disegnate a meraviglia”.
Sulla ‘Pietà’, Rossella Villani ha scritto:
“… è sconcertante il fatto che la Pietà, la prima opera che reca la sua firma, non mostri i caratteri peculiari dell’arte di Fabrizio Santafede, ovvero il naturalismo semplice devoto, la compostezza classica e un po’ accademica della composizione e il richiamo alla pittura veneta. Essa si ispira piuttosto alla pittura fiamminga, di cui recupera gli effetti luministici. Pure vi è nell’opera una forte caratterizzazione fisica e psicologica dei personaggi, resa dai marcati effetti chiaroscurali e spesse linee di contorno in funzione di una costruzione plastica e scultorea delle sagome, costrette in uno spazio angusto. La Madonna e il Cristo sono raffigurati in primo piano e a mezzo busto sulla tela: Maria avvince Gesù in un drammatico abbraccio e lo depone dolcemente sul lenzuolo. Cristo, si abbandona completamente tra le braccia della Madre mostrando un volto emaciato e sofferente, reso ancor più spettrale dalla bocca semiaperta. Il pittore predilige in questo dipinto tonalità cineree, accostate all’azzurro e al marrone, creando un effetto cupo e surreale non privo di influenze iberiche, filtrate attraverso i modi di Silvestro Buono, presenti soprattutto nell’espressionismo dei volti della Madonna e del Cristo”. Sul ‘Sant’Antonio’ e sul ‘San Francesco’ invece la Villani ritiene che “entrambi rappresentano gli unici pannelli superstiti di un polittico eseguito per la chiesa della Madonna del Rosario nel Convento di S. Antonio La Macchia, successivamente smembrato. I due Santi, rivestiti dal saio marrone, si stagliano sullo sfondo di un paesaggio naturale, interrotto, nel pannello con S. Francesco, da edifici, tra cui una chiesetta alla quale si recano minuscoli pellegrini. E’ evidente nelle due tele il taglio pietistico e devozionale della pittura controriformata, accentuato inoltre da brani di autentico fiamminghismo, quali i volti plasmati dalla luce e l’atmosfera cupa e surreale, data dallo stacco delle nubi oscure contro l’azzurro profondo del cielo. Per Silvano Saccone, un altro studioso del Pietrafesa, “i dipinti evidenziano la ricerca di figure inserite in una ambientazione paesaggistica dal taglio basso e ravvivato da lumeggiature. Elementi quindi di un assestamento stilistico personale ed eclettico che combina elementi fiamminghi con moderato colorismo rinforzato da effetti chiaroscurali e con uno sguardo alla lezione di realismo devoto dal Santafede e del Borghese”.
Sulla ‘Madonna dei Mali’, sempre Rossella Villani (‘Giovanni de Gregorio, Le opere del primo decennio’, pubblicazione del Consiglio Regionale di Basilicata) scrive:
“Il dipinto segna una svolta importante rispetto alle precedenti opere del pittore, per l’insieme delle componenti che lo caratterizzano: il vigore espressivo, la carica emotiva, la resa scultorea dei personaggi, gli effetti chiaroscurali, la nitidezza delle forme, la mobilità ed irruenza tardomanierista unita al naturalismo di matrice caravaggesca, filtrato attraverso i modelli Santafedediani. Un’opera singolare e meravigliosa, che esula dal contesto elegiaco e pietistico di talune pitture controriformate, ma che si inserisce piuttosto nel filone della tradizione tosco-romana con i suoi personaggi dalle membra tornite, le vesti accartocciate, la duttilità delle forme, l’espressività dei volti. La composizione rinuncia allo schema piramidale, a favore di una partitura a due registri sovrapposti. Nel superiore, la Madonna, assisa su un nugolo ovattato e grigiastro, regge il Bambino benedicente ed è affiancata da angeli dalle sembianze adulte e dai volti espressivi. Sul suo capo due paffuti cherubini, avvolti in circonvolute stole, reggono la corona. In basso due splendide figure di oranti in primo piano mettono in ombra gli altri penitenti, raffigurati su un piano intermedio e in proporzioni ridotte. Soprattutto la figura di donna alla sinistra della tela esprime una umile e intensa umanità, sottolineata dai lineamenti delicati del volto, dall’espressione di supplichevole speranza, dall’abito di popolana e dall’effetto di ritaglio della sagoma, scolpita da effetti di chiaroscuro fotografico”.
Per Anna Grelle, autrice di un libro sull’arte in Basilicata, che è il punto ineludibile di riferimento per cultori e esperti della materia, nella ‘Madonna dei Mali’ “moderna è la struttura compositiva, vivace il racconto anche nella Epifania della Vergine che con uno specillo segna gli unguenti per le infermità dei supplici, decise le valenze espressive del plinto freddo e tagliente – che indipendentemente dalla logica d’ambiente fa da quinta sulla destra – ma soprattutto del paesaggio greve, ritagliato dalla specola di una finestra, che fa eco per metafora al momento drammatico della scena. Le nubi turgide e catramose, allusive alla peste ed ai mali incombenti, insieme allo sguardo amaro e pensoso della Vergine, contribuiscono a quelle valenze in modo più eloquente del recitativo della corte dei miracoli in primo piano. L’acuta disamina psicologica, la penetrante resa dei sentimenti, dalla rassegnazione alla fiducia, dalla speranza alla disperazione, supera il dato classicista per un approdo di meditativa e sofferta religiosità. Intessuto in un contesto per certi versi parallelo al Borghese, ma più drammatico e pungente, aggiornato sui controriformati toscani e marchigiani, dal Passignano a Ferraù Fenzoni ed anche con qualche conoscenza di recenti cose emiliane, verso il Reni e il Dominichino, l’opera indizia ancora rimandi al Danona ed un’attenzione al naturale quotidiano di Giovanni d’Abriola, evidenti poli di riferimento d’una formazione giovanile”.
Per Silvano Saccone nella Vergine e negli angeli “è evidente un riferimento tipologico alle figure del Buono e del Santafede, i cui esempi più prossimi sono la Madonna del Rosario di Lucito e di S. Giovanni in palco di Mercato S. Severino, entrambe del Santafede. Gli effetti di luce contrastata e l’impiego di cromie raffinate sono indicativi di un interesse del Pietrafesa per una idealizzazione dell’immagine sacra a carattere devozionale”. Per sintetizzare, dal parere dei vari critici e studiosi emerge la tesi abbastanza condivisa di riferimenti che spaziavano da Silvestro Buono e Fabrizio Santafede ai fiamminghi Cornelis Smet, Wenzel Cobergher e Dirck Hendricksz (italianizzato in Teodoro D’Errico). Riferimenti che stupiscono, per Anna Grelle, tanto più perché successivi “all’innovativa impaginazione e agli articolati riferimenti della Madonna dei Mali”.
Torno sulla ‘Pietà’ del 1608 in San Francesco a Potenza. C’è una curiosità da raccontare a proposito di questa tela. Essa fu segnalata per la prima volta nel 1973 dal D’Acunti, che in una sua pubblicazione (“Storia ed arte nella Chiesa di San Francesco a Potenza”, pubblicato a Napoli) definiva la tela come la tela di un autore ignoto. L’attribuzione dell’opera spetta alla Barbone Pugliese ed è quindi abbastanza recente (1985). Questa studiosa veniva a confermare le impostazioni critiche dell’opera enunciate qualche anno prima dalla Grelle (A. Grelle Iusco, Arte in Basilicata. Catalogo della Mostra, 1981, p. 113) che ne sottolineava la dipendenza culturale dai modelli fiamminghi diffusi in Basilicata tra la fine del XVI e l’inizio del XVII.
“Non bisogna dimenticare – sottolinea la Villani – la presenza di pittori fiamminghi o di loro opere in Basilicata, come nel caso dello Smet o del d’Errico, e che la componente fiamminga fa parte della cultura artistica napoletana, scuola di tutti i pittori lucani dell’epoca”.
E non bisogna neppure dimenticare, aggiungiamo noi, che a Potenza le influenze fiamminghe erano già presenti nel 1608 cioè quando il Pietrafesa dipingeva la ‘Pietà’ perché nella vicina Chiesa di San Michele, sempre a Potenza ovviamente, il più importante pittore fiammingo tra quelli operanti nell’Italia meridionale aveva già dipinto da diversi anni un altro quadro di grande pregio come la ‘Madonna col Bambino tra i Santi Pietro e Paolo’.
http://www.potentiareview.it/2016/09/20/arte-fiamminga-potenza-dirck-hendricksz/
PINO A. QUARTANA
Nella foto; Giovanni De Gregorio detto il Pietrafesa. La Pietà, 1608, Chiesa di San Francesco – Potenza.
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