Il Convento di San Luca alla fine del XV° secolo decadde per una generale licenziosità delle monache che si era diffusa nel convento. Ne parlò il Rendina, il primo storico di Potenza, vissuto intorno al 1650, in un suo libro che è rimasto però sempre allo stato di manoscritto. Il lavoro non è mai stato pubblicato per ben tre secoli e mezzo fino a quando una ricercatrice di storia locale, la Abbondanza Blasi, non lo ha pubblicato per la prima volta, riportandolo in una edizione nuova da lei curata (Storia di una città; Potenza. Da un manoscritto della seconda metà del secolo XVII° – Salerno, 2000). L’episodio che ne determinò la chiusura fu uno scandalo scoppiato in città che vide come protagonista Suor Violante Anatrone, monaca di clausura del Convento di San Luca. I fatti si svolsero nei primi anni del 1500. La monaca di clausura aveva instaurato una relazione clandestina con un nobile di Potenza, Jacopo de Bono Joanne, ed in seguito a questa relazione proibita erano nati addirittura dei figli. Come se non bastasse, suor Violante aveva contratto con Jacopo anche un matrimonio clandestino mentre la suora era ancora in convento. I fatti suscitarono un enorme scandalo a Potenza. Sarebbero fatti tanto scandalosi ancora oggi ed anche in città più grandi, figuriamoci a Potenza appena passato l’anno del Signore 1500. A quel punto, scrive il Rendina “occorse che essendovi il padre frà Giovanni Francesco Cito, Guardiano di S. Maria del Sepolcro, Commendatario Apostolico nella Provincia di Basilicata dei Minori Osservanti per causa del Giubileo, ed asserendo aver sufficiente autorità dalla Sede Apostolica per poter dispensare in tal fatto; perciò sotto pretesto che detta Violante in tempo fece la Professione, non aveva volontà di obbligarsi alla Religione: dichiara dunque nulla detta Professione, dispensa che la detta Violante possa contrahere publico e solenne matrimonio in faciem Ecclesiae col detto nobile Jacobo e che li figli già nati da detto clandestino siano legittimi ed abili alla successione paterna. L’impone penitenza salutare di denari per composizione del delitto d’applicarsi alle spese del Santo Giubileo”. Questo fatto storico, ancora sconosciuto dopo ben cinque secoli, merita delle riflessioni supplementari. Sicuramente non avrebbe importanza, se non strettamente locale, se non fosse per una curiosità che è il caso di mettere in evidenza. Ciò che meraviglia di più non è solo il fatto che a Potenza, e ben 500 anni fa, si sia diffuso un certo libertinismo fra le monache di un nostro convento di clausura, ma soprattutto il fatto che, nonostante lo scandalo scoppiato in città, la vicenda sia finita nel modo più civile possibile, esattamente come finirebbe ancora oggi. E questo vuol dire veramente qualcosa; che Potenza si è sempre distinta, sin da tempi molto remoti, per il suo livello di civiltà e di tolleranza. Ma c’è di più. La scandalosa vicenda di suor Violante assomiglia incredibilmente ad un’altra e molto più nota vicenda di cui quella potentina potrebbe considerarsi l’anticipazione; la storia della monaca di Monza, resa immortale dal Manzoni nei Promessi Sposi. La storia della Monaca di Monza si svolse tra Milano e Monza e più tardi di quella potentina. Manzoni nel romanzo la chiamò Gertrude, ma il personaggio fu ispirato da una storia vera; la storia di Marianna de Leyva, divenuta Suor Virginia Maria. Come a Potenza, anche a Milano l’amante era un nobile. Nel caso del romanzo del Manzoni, si trattava del conte Gian Paolo Osio. Dalla relazione proibita nacquero almeno due figli; un maschio nato morto o deceduto durante il parto ed una bambina che Osio riconobbe come propria figlia, Alma Francesca Margherita (8 agosto 1604), affidata alla nonna paterna, ma vista sovente dalla madre.
L’amante di suor Virginia, che già in precedenza era stato condannato per omicidio, uccise tre persone per nascondere la tresca, ma fu scoperto, condannato a morte in contumacia e poi assassinato il giorno prima della sua condanna da un uomo ritenuto suo amico. L’arcivescovo di Milano, Federico Borromeo, messo al corrente della vicenda, ordinò un processo canonico nei confronti della monaca di Monza: al termine del procedimento suor Virginia fu condannata a essere “murata viva” nel Ritiro di Santa Valeria, dove trascorse quasi quattordici anni chiusa in una stanzetta (2,50 x 3,50) priva quasi completamente di comunicazione con l’esterno, ad eccezione di una feritoia che permetteva il ricambio di aria e la consegna dei viveri indispensabili. Sopravvissuta alla pena, rimase a Santa Valeria fino alla morte. Morale della favola. Nonostante si fosse svolta più di un secolo dopo rispetto alla analoga vicenda potentina ed in una città che già in quei tempi era ben più evoluta, grande ed europea di Potenza, la vicenda della Monaca di Monza (e di Milano) andò a finire molto peggio che a Potenza (dove, in fondo, andò a finire come finirebbe oggi). La Monaca fu arrestata, condannata e murata viva come non si fa neanche con una bestia, mentre il suo amante, nobile anche lui come il nostro messer Jacobo, fu condannato ed assassinato. Lascio al lettore trarre da sé le ultime considerazioni.
Porzia dei Tolomei, fu la moglie del 4° conte Guevara di Potenza, il conte Carlo, Quando Carlo morì, Porzia si trovò a dover fare da tutrice al figlio Alfonso, che divenne, il 5° conte Guevara di Potenza. Vedova di Carlo e tutrice di Alfonso, la contessa Porzia, descritta da cronisti del suo tempo come donna di “meravigliosa bellezza”, curò anche le trattative per la concessione dei privilegi alla città di Potenza; in particolare, del privilegio di non dover accogliere (a proprie spese) reparti armati nelle proprie mura. Porzia apparteneva come nascita alla più nobile famiglia di Siena; quella dei Tolomei (Dante aveva parlato di una sua antenata, Pia de’ Tolomei, nella Divina Commedia). Una parte della famiglia Tolomei si era trasferita già, prima di Porzia, nel regno di Napoli (esattamente a Santeramo in Puglia). Porzia ebbe anche una controversia molto lunga con il Comune di Potenza, che a quei tempi si chiamava Universitas, e, a parte un periodo in cui visse col marito Carlo a Racale in provincia di Lecce, dove Carlo Guevara si trovava in quanto era stato nominato Governatore della Terra d’Otranto, passò la sua vita da donna maritata e da contessa quasi sempre a Potenza. Fu a Potenza che la raggiunse una ferale notizia e che le dette un immenso dolore; la morte di uno dei figli, don Fabrizio Guevara, avvenuta a Bruxelles, dove il giovane nobile potentino era al servizio dell’Imperatore Carlo V (la cui corte imperiale risiedeva appunto nella attuale capitale europea e belga). Come il lettore ricorderà, ho già parlato in altra occasione della considerazione di cui i conti Guevara del ramo di Potenza godevano anche da parte di altre famiglie nobili del Regno e di altri Stati italiani. Il nome di Porzia dei Tolomei contessa Guevara viene fuori anche quando ci ricordiamo del fatto che una principessa Gonzaga, Gonzaga acquisita per via matrimoniale, volle recarsi a Potenza a farle visita. Anche una sua figlia si chiamò Porzia. Un’ultima annotazione. Quest’anno, nella Parata dei Turchi del 29 maggio ha fatto la sua comparsa, per la prima volta nella storia della famosa sfilata potentina, proprio il personaggio di Porzia dei Tolomei. Un personaggio di cui non si era mai parlato prima, di cui non si è mai parlato a Potenza. ‘Potentia Review’, invece, lo ha fatto per ben due volte. L’ultima volta a gennaio, quattro mesi prima della Parata. Coincidenze? Non saprei dirlo, francamente. Lascio al lettore, anche in questo caso, il dubbio o il piacere di trarre da sé le considerazioni che ritiene opportuno trarre.
Quando poi Don Alfonso de Guevara, sesto conte di Potenza, diede in sposa sua figlia Beatrice a Enrico di Loffredo, la città, che costituiva la dote nuziale, passò ai Loffredo. Il fatto più rilevante della vita della contessa Beatrice, quello che gli ha fatto guadagnare la riconoscenza perpetua dei potentini ed un posto nella storia della città si può definire la ‘donazione di Beatrice’. E’ un fatto che risale al 1621, anno in cui Beatrice donò l’antico castello della sua famiglia di origine (i signori Guevara) ai Frati Cappuccini di San Carlo ad eccezione della Torre (l’unica parte dell’antico castello che è arrivata fino ai giorni nostri), che i conti vollero tenere per sé. La donazione fu fatta con lo scopo preciso che il castello permettesse ai frati di fondare un Ospedale, cosa che fu fatta ed anche con una certa efficienza, dati i tempi. Più tardi, nel 1626 il conte Carlo Loffredo, figlio di Beatrice, lasciò ai frati una somma considerevole a condizione che nel castello fondassero una chiesa ed un monastero. Nel 1621, con la donazione, furono dati i primi soffi di vita a quella che soltanto nel 1810 con Murat diventò a tutti gli effetti l’istituzione ospedaliera San Carlo di Potenza, che, dopo quattro secoli dalla donazione di Beatrice, è oggi una delle prime dodici aziende ospedaliere di tutta l’Italia. Il ricordo di quel bel gesto non è andato perduto, ma anzi ha ricevuto consacrazione ufficiale nel logo dell’Ospedale San Carlo e della azienda ospedaliera San Carlo di Potenza. Ancora oggi, il logo del San Carlo mette in ottima evidenza la Torre Guevara a testimoniare il legame storico con la città di Potenza e per evidenziare la proiezione regionale e nazionale dell’Ospedale’San Carlo’ nonché il ricordo di quella che fu la prima sede del complesso ospedaliero. Ne ha fatta di strada il San Carlo in quattro secoli, sin da quando la contessa Beatrice impose ai frati la nascita di un ospedale.
Nel 1740, Don Nicola Enrico Loffredo, 13° Conte di Potenza (+ 19-11-1749) sposò Maria Ginevra Grillo, nata da nobilissima ed illustrissima famiglia genovese, forse la più antica di Genova. Fu figlia di Don Agapito IV Domenico Grillo (* Genova 17-11-1672 + 16-1-1738), 3° Marchese di Francavilla, 2° Marchese di Capriata, Marchese di Carpenetto, 4° Marchese di Clarafuentes e Grande di Spagna di prima classe, Barone di Mondragone e Carinola, Signore di Basaluzzo e Magnate d’Ungheria dal 1706, Patrizio Genovese; 1° Duca di Mondragone e Conte di Carinola con Diploma del 3-6-1709. Il fatto che questa famiglia genovese sia insignita di titoli nobiliari poggianti su predicati di località dell’Italia meridionale lo si deve al fatto che Paolo di Nicolò stabilì un ramo della famiglia in Napoli nel 1576 e da lì i suoi discendenti si propagarono in Calabria ed in Campania. Secondo alcuni autori, la loro presenza in Sicilia risale al tempo degli Svevi. Ma rimasero sempre genovesi. Don Agapito ebbe Maria Ginevra detta Ginevra da una belga, Isabelle Voyer. Ginevra Grillo, quasi sicuramente, nacque a Genova (come tutti i suoi fratelli) e morì nel 1776. Si tratta di un’altra figura praticamente sconosciuta della storia cittadina eppure di grande spessore. Il suo biografo fu, anche in questo caso, il canonico Emmanuele Viggiano, che in “Memorie storiche della città di Potenza” fa risaltare con grande enfasi e con sconfinata ammirazione le qualità della aristocratica genovese trapiantatasi a Potenza. Ginevra infatti passò la maggior parte della sua vita da sposata a Potenza (fatto per niente scontato nella Basilicata dei secoli feudali) e questo lo desumo dal fatto che il Viggiano affermi: ”Nicolò Enrico fu Viceré in Basilicata per (conto di) Carlo VI e menò la maggior parte del viver suo in Potenza dove passò di quella vita nel 1748”. E la nobildonna Ginevra Grillo, sua moglie? Per capire la ammirazione che il nostro storico nutrì per la ricca e nobile dama genovese, moglie del conte potentino, bastino queste poche parole: “Ginevra sua moglie scienziata donna del pari, che nobile ebbe anch’essa speciale predilezione per la Sua Città di Potenza, ove viveva in mezzo ad una brigata di uomini di lettere che la di lei scomparsa compiansero assai”. Il figlio del conte Nicolò Enrico e della contessa Ginevra Grillo, Carlo Loffredo IV (morto nel 1791), sposò Marianna Albani (Maria Anna Giuseppa Albani per la ufficialità anagrafica), rappresentante di una grande famiglia della nobiltà romana di origine urbinate, che quando Marianna convolò a nozze col conte potentino, aveva da non molto dato alla Chiesa uno dei più grandi papi del 1700, Clemente XI, di cui Marianna era nipote. Carlo Loffredo e Marianna Albani ebbero nove figli. Questo è il profilo che di Marianna Albani traccia il Viggiano: “Questa donna non scompariva a petto del marito (non sfigurava o era di meno a cospetto del marito n.n.) in quanto a probità, letteratura ed a quella maniera dignitosa di vivere, che per essere rara ai giorni nostri (ovviamente il Viggiano di riferisce ai primi del 1800 n.n.) nominiamo antica virtù, ebbe la stessa pendenza della Grillo per il soggiorno potentino, ove mostrò molti segni di sua indole magnanima e generosa”. Passa ancora una generazione ed abbiamo la nipote di Ginevra Grillo, che si chiamava anche lei Ginevra, ma Ginevra Loffredo. Ed è a Ginevra Loffredo che, sempre il Viggiano, dedica il suo libro (Memorie storiche della città di Potenza). Nei riguardi di Ginevra Loffredo, l’ammirazione del Viggiano sfiora spesso l’adulazione (la cosa si spiega facilmente; vivono negli stessi anni n.n.). Ginevra Loffredo (che aveva sposato uno zio, don Gerardo Loffredo) viene ritratta con le più belle e toccanti parole. Il Viggiano la definisce “ornamento dell’età nostra” oppure come “Donna magnanima che dall’universale suffragio a dì nostri siete la gloria del vostro sesso, il pregio dell’Italica gentilezza”. Il ritratto che ne vien fuori è anche quello di una donna che dalla sua più tenera età si è dedicata agli studi (“agli studi intenta”) ed il cui animo “delle sublimi scienze informato e ricolmo”. La nobildonna (di nascita napoletana) viene sensibilizzata dal Viggiano affinché mostri interesse e passione per la sua nuova città; Potenza. Ora – dice il Viggiano a Ginevra Loffredo – è vero che Potenza è una città secondaria ed è vero che non coinvolge molta gente, ma è pur vero che si tratta della città nella quale i vostri “progenitori hanno ivi sortito lor nascimento e lasciate le loro spoglie mortali e che è stata nei tempi a noi vicini dilettevole soggiorno di due di vostra stirpe sublimi Donne: Donne che furono nel viver loro perfetto esempio di ogni virtù; voi già mi intendete, voi già col pensiero mi dipingete l’immagine delle illustri Ginevra Grillo e Marianna Albani che state sono il perfetto esemplare e la diritta regola a cui Vi siete attenuta per rendervi, come ognun vede, compiuta, ammirabile e gloriosa agli occhi di tutti”. Da altri piccoli particolari e da altri passaggi del Viggiano emerge con nettezza l’immagine di una donna buona e sensibile, ma soprattutto di una donna molto colta ed intelligente, di una donna capace di “comprendere ogni scienza ed ogni cagione delle arcane cose”, ma anche ”le filosofiche discipline” e le moderne favelle cioè le lingue moderne europee. Quarant’anni dopo, o poco più, scomparso il feudalesimo, destituite dei loro feudi le famiglie nobili, con i Francesi arriva un nuovo mondo e con esso arriva anche a Potenza l’egemonia borghese. La borghesia apre una nuova grande pagina di storia per la città. Il 1800, annunciato a Potenza dai moti potentini del 1799 giacobino, sarà il Secolo d’Oro di Potenza. Nel 1800 a Potenza emerge la figura di una donna di intelletto, la chiamerei col termine borghese e moderno di ‘intellettuale’: Laura Battista, che nacque a Potenza nel 1845 da Raffaele Battista e da Caterina Atella entrambi di Matera, anche se altre fonti dicono che il padre fosse di Agrigento (la madre sicuramente materana). Il padre fu un insegnante di lettere e segretario perpetuo della Società Economica di Basilicata di Potenza e consigliere provinciale di Matera. Raffaele insegnò Latino e Greco presso il Real Collegio di Basilicata a Potenza dal quale fu espulso a causa del suo orientamento liberale, poiché l’istituto fu affidato alla direzione dei Gesuiti. Egli poté riprendere a insegnare solo dopo l’Unità d’Italia e, quindi, dopo la scomparsa del regime borbonico. Nel 1871, in seguito al trasferimento della famiglia a Matera, divenne consigliere provinciale della Basilicata. Autore di studi e inchieste sullo stato dell’economia agraria della provincia, era un fine latinista e autore di traduzioni e fu il primo e, per molto tempo, l’unico maestro di Laura. Sua madre, Caterina, che era una donna colta e dai forti sentimenti liberali, morì nel 1859, quando lei aveva tredici anni. La madre poté svolgere per lo più una funzione puramente affettiva, la cui privazione ispirò Laura nel dedicarle la lirica All’usignuolo. A quindici anni pubblicò nell’antologia di autori lucani “Fior di Ginestra”, stampata nel 1860 a Potenza, la sua poesia dedicata alla madre, intitolata “All’usignuolo”. Ingegno precocissimo, Laura respirò nella sua casa potentina l’accesa aria rivoluzionaria e antiborbonica che portò la città a sollevarsi il 18 agosto 1860. Sottolineò nei suoi versi le vicende antiche e recenti della patria; cantò Garibaldi, Francesco Mario Pagano, Camillo Benso di Cavour, Vittorio Emanuele II e Umberto I. Non ancora maggiorenne, Laura fu in grado di studiare da autodidatta grazie alla sua inclinazione a conoscere, che la spinse, insieme al suo innato interesse per l’attualità, a studiare diverse lingue straniere come l’inglese, il francese e il tedesco. Così comincio anche a tradurre opere di Thomas Moore, Goethe, John Milton, George Byron e Maria Wagner. Ad un certo momento, le fu imposto di rallentare con gli studi per non compromettere ulteriormente la propria salute. Tuttavia, questa sua incessante necessità di apprendere la spinse, nel 1874, a prendere in considerazione il ramo dell’insegnamento. È così che nello stesso anno venne nominata maestra del Convitto Magistrale di Potenza. Vi rimase per pochi mesi, essendo stata costretta il 22 marzo 1875 a lasciare presto l’incarico, sia per ragioni di salute, sia perché nel 1870 aveva sposato il conte Luigi Lizzadri, appartenente ad una delle più antiche famiglie di Tricarico. Luigi Lizzardi non fu né un marito affettuoso e attento, né un buon padre ed era descritto da chi lo conobbe come ozioso signorotto dedito al gioco e alle donne. Non trovò amore, dunque Laura, nel suo matrimonio combinato, come testimoniano le non poche liriche scritte tra il 1859 ed il 1873 dedicate alla sua famiglia e a quella dei Lizzadri.
Laura era sofferente nel fisico e nobile nei sentimenti e non riuscì a vivere tranquillamente la sua vita coniugale scossa dalle precarie condizioni economiche e dalla perdita di quattro dei suoi cinque figli. Soltanto il figlio Francesco Nicola Arnaldo sopravvisse, mentre le altre quattro figlie femmine Rosalba, Raffaella, Margherita ed Ermenegilda morirono l’una dopo l’altra caricandola di altro dolore. Infatti, molte furono le poesie scritte in memoria delle sue figlie. La morte delle quattro figlie rappresentò un decadimento psichico e fisico nella vita di Laura, consolata solo dal figlioletto e dalla poesia. Trascorse anni infelici, attendendo una gloria irraggiungibile, fino a quando non decise di dedicarsi nuovamente all’insegnamento. Laura Battista ebbe una ricca corrispondenza epistolare con molti intellettuali del tempo come il Prati, l’Aleardi ed il Carducci, che apprezzarono le sue liriche e il suo ardente messaggio civile. Nel 1879, Laura pubblicò la sua raccolta di 81 liriche, ‘Canti’ presso la Tipografia Conti di Matera, dedicandola ai figli perduti. Nella prima parte della raccolta si legge:
“Pongo sull’urna/ dei miei quattro figlioletti/ spasimo e sospiro del mio cuore/ questi canti/ come ghirlanda non di alloro/ ma di cipresso/ cresciuto alle mie lagrime» L’opera non ebbe successo probabilmente perché pubblicata in una piccola provincia e il desiderio di gloria della poetessa, sempre agognato, non si realizzò e fu anche per questo che si trasferì a Camerino nelle Marche dover ricominciò ad insegnare. La lontananza da casa e il lavoro per lei impegnativo, accrebbero la sua spossatezza e non migliorarono le sue condizioni di salute. Ammalatasi, dovette ritirarsi dall’insegnamento e tornare rapidamente a Tricarico, dove si spense, qualche mese dopo, il 9 agosto 1884, nel palazzo di famiglia a trentotto anni. Queste sono le principali note biografiche. Per quanto riguarda la specificità della sua produzione letteraria, Laura Battista fu ‘in pieno’ una figlia del suo tempo ed il suo tempo fu contrassegnato dal Romanticismo. Nel 1861 Laura Battista dava alle stampe il canto Per la morte del Conte Camillo Benso di Cavour (Potenza, tip. Santanello). La posizione della sedicenne, in linea con il saggio che il fratello Camillo stampava nello stesso anno Reazione e brigantaggio in Basilicata nella primavera del 1861 (Potenza, tip. Santanello), ci illumina sui sentimenti risorgimentali della borghesia potentina e si anima, nonostante l’occasionalità del componimento, di immagini pregnanti e vive, come, alla penultima strofa, nel riferimento a Garibaldi, l’eroe di Laura Battista. Possiamo dire che in Laura Battista si evidenziano due linee poetiche del Romanticismo, due linee ben nette; la linea della poesia intimista, che le vicende tragiche della sua vita (come ho ricordato, perse la mamma a soli 15 anni e poi, da sposata, perse quattro figlie piccole) fecero declinare in poesia sepolcrale, e la seconda, quella del patriottismo politico. Quindi, accanto al Romanticismo estetico conviveva il Romanticismo politico, fatto che non deve certamente sorprendere; basti pensare ad uno degli autori che Laura aveva tradotto da giovanissima; Lord Byron. Circa la prima linea c’è da dire che alcuni studiosi della produzione letteraria di Laura Battista l’hanno riferita a Foscolo. Ma alcuni dei più belli e strazianti componimenti della poetessa potentina fanno pensare alla poesia sepolcrale e cimiteriale, che nasce ancor prima di Ugo Foscolo. E’ difficile non pensare che una giovinetta che conosceva già tre lingue e che aveva tradotto Byron non conoscesse la poesia pre-romantica ed ossianica inglese e specificamente Young, Gray ed Hervey. L’altra vena, quella risorgimentale, risentiva molto anch’essa dei tempi e la giovane Laura Battista ebbe da appassionata patriota risorgimentale un retroterra invidiabile per coltivare i suoi ideali; la Potenza post-unitaria ed immediatamente pre-unitaria; in altri termini, la capitale meridionale del Risorgimento italiano. A ventitré anni, Laura Battista scrisse e divulgò il dramma storico-politico, Emmanuele De Deo, stampato a Potenza nel 1869, in cui celebrava uno dei più tragici momenti della storia del Mezzogiorno d’Italia, la congiura antiborbonica scoppiata a Napoli nel 1794 e organizzata dai circoli giacobini che, nutriti degli ideali libertari francesi, propugnavano la rivoluzione anche in Italia, sognando l’instaurazione della repubblica. La congiura fu scoperta dalle guardie borboniche e furono arrestati alcuni giovani studenti e intellettuali. Tra loro vi erano gli amici Vincenzo Galiani, Vincenzo Vitaliani ed Emmanuele De Deo. Quest’ultimo era nato, nel 1772, a Minervino Murge ed era uno studente di diritto presso l’Università partenopea. Emmanuele De Deo fu arrestato il 9 gennaio 1794 e sottoposto a tortura perché rivelasse i nomi dei cospiratori, ma non fece alcuna rivelazione. I suoi due compagni invece si lasciarono andare a confessioni e tutti e tre salirono sul patibolo di Piazza Mercato nell’ottobre dello stesso anno. Nel 1879, incitata da Abele Mancini, la poetessa potentina pubblicava la sua raccolta di liriche, scritte dal 1859 al 1879. La raccolta contiene ottantuno componimenti di varia natura: sonetti, canzoni, odi ed epodi, composti con eccezionale abilità nella versificazione. Tutte le liriche sono corredate di data e luogo di composizione. Nella raccolta sono presenti poesie intimistiche e d’occasione, che permettono di conoscere la personalità dell’autrice e l’ambiente in cui visse. Molte sono le liriche di stampo patriottico, volte a far nascere negli uomini lo spirito nazionale. Il dolore domina anche nelle liriche patriottiche presenti nei Canti, ispirate all’Aleardi, al Manzoni delle odi civili e al Foscolo, da cui deriva, come appena detto poco sopra, il culto del sepolcro e della bella morte. La poetessa prova una profonda sofferenza per la patria oppressa dalla tirannide e per i martiri che hanno dato la vita per una giusta causa: la nascita di una nazione libera e felice. Le liriche patriottiche rivelano il furore combattivo dell’animo di Laura che nasceva dalla constatazione delle sofferenze della sua patria verso la quale Laura provava un grande amore. La causa risorgimentale di cui la poetessa potentina si fece portavoce fu la ragione che la mantenne in vita ed uno dei suoi ideali più grandi. Molte liriche celebrano i personaggi illustri del movimento antiborbonico e risorgimentale come il martire Mario Pagano, il Conte di Cavour, Alessandro Manzoni, Aleardo Aleardi, uno dei pochi amici di Laura, Vittorio Emanuele II e Giuseppe Garibaldi, che per Laura era l’autentico artefice dell’unificazione italiana. Intensa di slancio patriottico è la canzone scritta Per l’inaugurazione di un mezzo busto in marmo rappresentante Mario Pagano nell’aula della Corte di assise di Potenza il 14 marzo 1863, un eroe della rivoluzione napoletana del 1799, durante la quale immolò la sua vita per la liberazione di Napoli dalla tirannide.
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Violante Anatrone, Porzia dei Tolomei, Beatrice Guevara, Ginevra Grillo, Marianna Albani, Ginevra Loffredo, Laura Battista. Sette donne potentine o, comunque, fortemente legate storicamente ed anche affettivamente, a Potenza, donne aristocratiche o borghesi, che hanno inciso profondamente nella storia di Potenza. anche se non si direbbe, visto l’oblio dal quale sono state sopraffatte post-mortem. Donne trasgressive come Violante o emancipate come Laura. Donne illuminate come Beatrice o donne coltissime e raffinate come le due Ginevre o come Marianna, donne provenienti da illustri famiglie nobili italiane come Ginevra Grillo e come Marianna Albani ma anche come Porzia dei Tolomei. Donne gentili, colte e raffinate, ma, nello stesso tempo, anche donne di polso che hanno governato un feudo di una certa importanza per decenni.
Sono sicuro che questa è la prima volta che queste sette donne vengono affiancate durante un excursus della storia potentina lungo quattro secoli, la prima volta che vengono idealmente unite e ricordate con una linea rossa di collegamento, che è anche la linea rossa di questa città. Sono donne che hanno lasciato una impronta di cultura, di emancipazione (non solo a vantaggio di se stesse o del genere femminile, ma di tutta la collettività che le ospitava o che da queste donne veniva governata e rappresentata), di magnanimità, di delicata raffinatezza aristocratica ma anche borghese (Laura Battista). Una città non è fatta solo di eventi memorabili realizzati da uomini o maschi. La civiltà di una città o di una Nazione, di un popolo, si misura anche (anzi, molto) da come viene considerata la donna ed il suo ruolo nella società, dal rispetto sociale e personale che a loro viene riservato, o meno. E tutto ciò dipende anche da un determinato ambiente e dal tempo che le donne vivono. Certo, erano donne privilegiate, quasi tutte aristocratiche ed alcune nate in grandi famiglie aristocratiche d’Italia. Eppure, di quante donne nobili abbiamo letto le storie infelici e tristi della loro vita anche nelle corti, anche nei castelli? In Basilicata abbiamo un caso emblematico, quello di Isabella Morra, uccisa dai fratelli perché aveva una relazione con un nobile spagnolo. I tempi in questione erano molto più violenti e rudi degli attuali, eppure da queste sette storie e da questi sette profili emerge anche la civiltà di un ambiente come quello di Potenza, che, al contrario di altri feudi della stessa Basilicata (ho appena ricordato e citato il caso di Isabella Morra, ma posso citare anche, per rimanere in Basilicata, il caso del principe Carlo Gesualdo da Venosa e della moglie che venne da lui assassinata), beneficia dell’opera di queste donne, ma che, al tempo stesso, costituisce un ambiente che per il Sud e la Basilicata di quei tempi doveva essere abbastanza progredito. E’ questo il senso storico, infatti, che si può ricavare dalla vicenda di Violante, la quale avrebbe fatto a Milano, non a Valsinni, e più di un secolo dopo, una fine poco simpatica, mentre a Potenza, nonostante l’enorme scandalo (e ci sarebbe mancato pure che il popolo non si fosse scandalizzato!), la sorte di Violante fu la migliore, più civile ed emancipata che ancora oggi a cinque secoli di distanza da quei fatti si possa immaginare dappertutto! E quanta sensibilità moderna, quanto amore e civiltà c’è nella volontà di Porzia di non avere nella città di Potenza truppe armate? E quanta saggezza e sensibilità ‘illuminata’ ci fu nel gesto di Beatrice di rinunciare ad una importante proprietà di famiglia per far sì che nascesse un ospedale a Potenza? Un gesto da aristocratica ‘illuminata’ che si può paragonare a quello che, solo un secolo e mezzo dopo, la sovrana ‘illuminata’ per antonomasia, Maria Teresa d’Austria d’Asburgo, compì a Vienna imponendo la costruzione di un ospedale ed il rinnovamento degli studi di medicina. Tanto più ammirevole fu allora la donazione se consideriamo che Beatrice non era certo la sovrana di uno Stato ricco dell’Europa centro-settentrionale, ma solo la titolare di una piccola contea localizzata nel Sud più remoto ed isolato d’Italia. Ed in Basilicata nobili e feudatari non solo non vivevano quasi mai nei loro feudi lucani (stavano tutti, o quasi tutti, a Napoli nei loro palazzi), ma si ricordavano dei loro feudi lucani solo per spremere i sudditi di tasse e solo per le soverchierie che attuavano nei confronti del popolo. In alcuni feudi della Basilicata l’atmosfera era radicalmente opposta a quella della Contea di Potenza; basti pensare alla vicenda del conte Tramontano a Matera trucidato dal popolo ormai sfinito dai soprusi. Certo, il Viggiano ha sovente toni adulatori nei confronti di Ginevra Loffredo, ma da quei toni traspare anche una sincera ammirazione, che, probabilmente, non era avvertita solo dal canonico e storico. E che dire della vita di Ginevra Grillo, che si svolge a Potenza prima del 1750. Due sono le note da sottolineare per quanto riguarda la nobile genovese diventata contessa di Potenza; l’amore per la città, la predilezione, ed il fatto che fosse una donna coltissima e studiosa che viveva circondata da una “brigata di uomini di lettere che la di lei scomparsa compiansero assai”. Insomma, Ginevra aveva creato nel suo palazzo un piccolo cenacolo intellettuale ed anche il fatto che vivesse in mezzo a tanti uomini che non erano il marito fa capire molto. Ginevra deve essere stata una donna non solo molto emancipata intellettualmente, ma anche nei costumi, nel senso che era una donna che, pur essendo sposata, si muoveva abbastanza liberamente (non però in altri sensi più morbosi) in mezzo ad uomini, che costituivano la brigata di letterati con i quali Ginevra aveva creato questo cenacolo intellettuale potentino. Come Beatrice deve essere stata una piccola Maria Teresa d’Austria, così Ginevra Grillo deve essere stata una piccola Madame de Stael della profonda provincia meridionale. D’altronde, a metà del 1700 il modello in voga non era più, forse, la corte medioevale, ma il salotto letterario illuminista alla francese. Lo stesso discorso vale anche per l’altra Ginevra; Ginevra Loffredo. E forse anche per Marianna Albani, la nipote di Papa Clemente XI. L’accenno del Viggiano alla ‘letteratura’ può dare ad intendere che Marianna Albani avesse la stessa predisposizione per la cultura che avevano anche le due Ginevre. Con Laura, invece, Potenza conosce una nuova figura femminile, una sorta di proto-femminista patriottica, ma anche la donna colta ed emancipata che assurge ad uno stadio superiore; quello di donna intellettuale. Ed anche nel caso di Laura, come ho già accennato, Potenza è un luogo di formazione nonché un retroterra come pochissimi altri; non solo in Basilicata e non solo nel Sud Italia. Potenza beneficiò del prestigio apportato da queste presenze femminili, ma, allo stesso tempo, seppe anche restituire loro qualcosa.
PINO A. QUARTANA
Nel collage; a sinistra una tela raffigurante la Monaca di Monza. Una storia famosissima preceduta da analoga storia che si svolse a Potenza nei primi anni del 1500 – A destra una foto della poetessa potentina Laura Battista.
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