Il ‘brutalismo’; la sua storia mondiale
Il ‘brutalismo’ è stata una importante corrente della architettura moderna e contemporanea. Il termine nasce nel 1954 in Inghilterra e deriva dal béton brut di Le Corbusier, che caratterizza l’ Unité d’Habitation di Marsiglia. Questa corrente che ha riscosso il suo più grande successo nel mondo anglosassone degli anni Cinquanta fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, ha infatti avuto un impatto magistrale sulla scena mondiale del design contemporaneo. Con il progressivo decadimento del movimento moderno, il brutalismo si fa sempre più strada, complice un’architettura semplice, ripetitiva e fatta di materiali grezzi, che garantisce la possibilità di creare grandi opere ad un costo ridotto. E’ errato ed ingannevole tuttavia pensare che il cemento a vista sia la sola componente materica dello stile brutalista. Questa grande corrente della architettura mondiale (il brutalismo è stato, così come l’international style, anch’esso basato molto sul cemento, veramente un fenomeno estetico di portata mondiale) ha contemplato nelle sue realizzazioni migliori, più pregne di contenuti storici, estetici e teorici, come nel caso degli architetti Alison e Peter Smithson anche mattoni, acciaio e vetro per dare ai loro edifici lo stesso carattere crudo e de-ornato del cemento grezzo. Inoltre, il progetto del Centre Pompidou di Parigi, realizzato da architetti eccezionali quali Renzo Piano e Richard Rogers è considerato da molti critici di architettura come un progetto che si rifà particolarmente a quei canoni propri del brutalismo, che fanno si che tutti gli elementi strutturali vengano lasciati esposti. Questo esempio esprime perfettamente la potenza e la monumentalità delle costruzioni brutaliste. Potrei andare avanti per molto nell’elencare sia i migliori esempi nel mondo intero di architettura brutalista, sia i peggiori. Questa ambivalenza è una delle caratteristiche di una corrente della architettura contemporanea molto controversa e discussa come il brutalismo. Non è mia intenzione tracciare un profilo, sebbene succinto della critica d’arte applicata all’architettura in merito al fenomeno brutalista. Sarebbe un discorso troppo lungo e complesso e non strettamente necessario per il discorso che qui voglio portare avanti. In ogni caso, che si sia verso il brutalismo ben disposti o che si sia molto maldisposti (un esempio su tutti; il Principe Carlo d’Inghilterra), un dato è assolutamente certo e cioè la grande importanza per la storia e la critica della architettura che il brutalismo ha assunto nel secondo dopoguerra.
Architettura ‘brutalista’ in Italia; Marcello D’Olivo
Marcello D’Olivo è stato uno dei maggiori protagonisti dell’architettura italiana del dopoguerra ed uno dei massimi esponenti dell’architettura organica sperimentale. Nel 1950 fece parte dell’A.P.A.O., l’Associazione ‘Per l’Architettura Organica’, fondata da Bruno Zevi.
Teorico della costruzione di una “nuova città” in grado di comporre il dissidio tra architettura e natura, interprete assolutamente originale della lezione di Le Corbusier, Frank Lloyd Wright e particolarmente Alvar Aalto, pittore di spicco e intellettuale “a tutto tondo”, il friulano Marcello D’Olivo è stato un maestro che ha segnato la storia facendo scuola a livello nazionale e internazionale. Padre del “circus”, grande edificio circolare, e della celeberrima “pianta a spirale” di Lignano Pineta, D’Olivo ha operato su scala mondiale: dalla Giordania all’Australia, dal Congo all’Arabia Saudita. La figura di Marcello D’Olivo è considerata come quella del Frank Lloyd Wright italiano. Parimenti, è stato uno dei massimi rappresentanti del neoespressionismo e del brutalismo in Italia. Sicuramente un maestro, sicuramente uno dei più grandi architetti e ‘maestri’ italiani del 1900. Nato ad Udine nel 1921, nel 1950 progetta il Villaggio del Fanciullo a Opicina (Trieste), Quest’opera lo impone alla attenzione critica di Bruno Zevi. Nel 1952 si lega d’amicizia al poeta ed intellettuale lucano Leonardo Sinisgalli, fondatore della rivista ‘Civiltà delle Macchine’, col quale incontra a Milano Le Corbusier. Riceve l’incarico per il piano di lottizzazione di Lignano Pineta, il cui tracciato stradale viene risolto con una spirale euclidea inserita tra le dune e la pineta. Mentre i servizi si concentrano in una costruzione che si allunga dal centro della spirale verso il mare detto “il treno”. A Lignano Pineta, D’Olivo realizzò anche tre originalissime ville che fecero scrivere allo storico dell’architettura Bruno Zevi che “D’Olivo è il Wright italiano”. Nel 1955-1959 svolge una intensa attività di progettazione tra cui il progetto di una torre (un grattacielo) a Chicago per il Fermi Memorial, alta un km. Vince il concorso per il restauro della cupola di Omar a Gerusalemme e progetta la città universitaria a Ryad e l’ospedale Mouascher ad Amman. Nel 1959/1964 realizza il villaggio turistico di Manacore nel Gargano (case tipo, Hotel Gusmay) guadagnandosi un Premio di Architettura nel 1966. Apre uno studio a Milano. Con Ludovico Quaroni progetta il centro turistico per il Lido di Classe a Ravenna. Su commissione di Leopold-Sedar Senghor, il presidente-poeta del Senegal, progetta la Cité del Arts, il museo di Dakar, la capitale senegalese. Nel periodo tra il 1965 ed il 1970 progetta e realizza l’Ospedale Ortofrenico di Potenza. Nello stesso periodo in cui lavora all’Ospedale Ortofrenico di Potenza si sposta in continuazione tra l’Europa, l’Africa ed il Medio Oriente. Nel 1967 apre una succursale del suo studio romano a Libreville (Gabon), ove progetta il quartiere Vallee de la Mission, realizza le strade di collegamento alla città nonché un centro per spettacoli e congressi, la “Peyrie”, (1967 e 1971). Tra il 1967 e il 1969 progetta le sedi televisive di El Beida, Bengasi e Tripoli, un ospedale psichiatrico a Palestrina e Guidonia (Roma) e un centro sociale in Calabria. Tra il 1968 ed il 1969 realizza numerosi progetti per l’Africa e il Medio Oriente. Partecipa al concorso per il centro culturale Plateau Beaubourg a Parigi. Dal 1970 al 1978 apre una succursale dello studio romano a Brazzaville in Congo. Pubblica il libro ‘Discorso per un’altra architettura’ nel 1978 proponendosi non solo come nota archistar a livello mondiale, ma anche come teorico della architettura. Numerosi i suoi progetti in Arabia Saudita, a Berlino, nel Nepal, in Africa e Medio Oriente. Si dedica alla elaborazione di città utopiche: la “Città Ciambella”, la città ecologica denominata il “Gradiente” e “Mito”, un nuovo centro tra Milano e Torino. Partecipa alla Biennale di Venezia. Nel 1979 riceve l’incarico da Saddam Hussein per la realizzazione del Monumento al Milite Ignoto a Baghdad, concluso nel 1982, con il quale vince il Premio CECM (Convention Europeenne de la Construction Metallique). L’opera realizzata nella capitale dell’Irak fu la più colossale opera architettonica in cui si cimentò. Il monumento al milite ignoto a Baghdad, in Iraq ha una cupola che copre un’area circolare di 250 metri di diametro. (si pensi che l’asse maggiore di Piazza S. Pietro misura… solo… 180 metri). Nel 1985-1991 pubblica il testo “Ecotown-Ecoway” in cui sintetizza e teorizza la costruzione di una nuova città ed espone a Los Angeles, elaborando per l’occasione una nuova versione della torre disegnata per il concorso di Chicago anni addietro. Nel 1985 rientra definitivamente ad Udine dove muore nel 1991 all’età di 70 anni. Nel 2002 la sua città, Udine, gli ha dedicato una mostra e due cataloghi monografici editi da Mazzotta con scritti di Gillo Dorfles, Massimiliano Fuksas, Toni Follina, Isabella Reale. Nel 2009 sempre la città di Udine ha dedicato a D’Olivo una mostra sul Monumento al Milite Ignoto di Baghdad.
L’Ospedale Ortofrenico di Potenza; storia e struttura architettonica
Negli anni ’50 del 1900 si diffuse un nuovo modello di Ospedale Ortofrenico altrimenti detto Casa Manicomiale. In pratica, si passò dall’idea del villaggio a quella dei padiglioni collegati fra loro da passaggi coperti. Prima degli anni ’50, esattamente agli inizi del secolo, Potenza fu teatro di un grande esperimento di avanguardia in campo sanitario: furono gli anni del cosiddetto Progetto Ophelia, un progetto-pilota nazionale realizzato architettonicamente da Giuseppe Quaroni e da Marcello Piacentini, di cui parleremo in un successivo articolo di ‘Potentia Review”.
“Non essendo mai stato impiegato per la finalità per cui era stato progettato il manicomio di Piacentini e Quaroni a Potenza – scrive Carolina De Falco nel volume da lei curato “I complessi manicomiali in Italia fra Ottocento e Novecento”, Electa, Milano – don Uva inizia a immaginare fin dal 1935 una nuova sede della Casa che potesse venire incontro anche alle esigenze degli abitanti della Provincia di Matera. Solo dopo la guerra, tuttavia, nel 1951, grazie a favorevoli appoggi politici, riesce a firmare la relativa convenzione, approfittando di un terreno di 46.000 mq, all’ingresso della via Appia. Tra il 1954 e il 1961 si sviluppa l’impianto dell’Ospedale neuropsichiatrico potentino. Su progetto di Buttiglione vengono costruiti, in pietra a vista o con un rivestimento di mattoni, il primo padiglione cronici, con l’infermeria e l’amministrazione, i due padiglioni maschile e femminile, un padiglione deficienti, il parlatorio, la casa suore e la chiesa, tutti collegati tra loro.
Tra il 1968 e il 1972 viene invece realizzato l’Istituto ortofrenico, il cui progetto, pure se affidato nella direzione dei lavori ai Martucci, è firmato da Marcello D’Olivo. Va ricordato che l’architetto di Udine nel 1949 aveva ricevuto l’incarico per il progetto dell’Educandato femminile del Gesù Bambino a Trieste, entrando in contatto con il sacerdote Mario Shirza il quale, nell’intraprendere la sua attività a favore dei giovani disadattati, orfani e profughi di guerra, insieme al salesiano Teseo Furlani, esperto pedagogo della congregazione Don Bosco, l’anno dopo gli commissiona il Villaggio del Fanciullo. Il fabbricato neoespressionista dell’Istituto ortofrenico di Potenza, in cemento a vista, si articola in quattro padiglioni che innestandosi a 45° nella galleria di servizio, ne innovano la tipologia, “formando un complesso che si adatta perfettamente alla natura del terreno circostante”. A uguali caratteristiche costruttive corrispondono altezze diverse, da tre a sei piani, e grande cura è rivolta in particolare all’esposizione e all’ubicazione delle stanze di degenza, dei locali comuni e dei servizi. Tutte le stanze infatti si affacciano o sui giardini adiacenti, di cui ciascun padiglione è dotato, o su grandi ballatoi, tutti esposti verso Sud. Il complesso è stato realizzato con “sobria ricchezza di movimento di volumi”, con l’impiego di materiali pregiati, colorati, con l’abolizione di grate alle finestre e con vasti spazi per soggiorno e giochi all’aperto, al fine di garantire ai pazienti il conforto di una dimora esteticamente attraente, tenendo conto dei più moderni concetti di ambiente idoneo alla psicoterapia e alla socioterapia. L’attenzione prestata al comfort è tanto più vera se si pensa che il progetto per l’istituto ortofrenico di Potenza, nasce da un adattamento di quello, non più realizzato, del motel indicato come H3 sulla planimetria del villaggio vacanze a Manacore sul Gargano, con l’innesto a spina di pesce delle stecche con le camere. Circostanza – questa dell’adattamento delle stanze ideate per villeggianti in camere di degenza – che dimostra, una volta di più, sia la caratteristica della ricerca doliviana di adottare forme e soluzioni reimpiegabili indifferentemente dal luogo e dalla destinazione d’uso, sia la oramai più libera concezione con cui l’architettura viene impiegata al servizio di una struttura psichiatrica. Ubbidendo alla recezione di entrambe le lezioni dei maestri del Moderno, come molti dei protagonisti della “terza generazione”, D’Olivo alla “libera gestualità” che caratterizza il trattamento dei due corpi edilizi, unisce l’esperienza lecorbusiana della suggestiva, ampia parete curva, ripresa dall’Hotel Gusmay a Manacore, scandita verticalmente dal ritmo serrato dei brise soleil. Altrettanto interessante è la citazione costituita dalla terrazza praticabile sul tetto, sormontata da una pensilina”.
I migliori esempi della architettura ‘brutalista’ in Italia: Milano, Firenze, Roma, Potenza
In Italia le opere brutaliste più note si trovano a Milano, La Torre Velasca, esempio primo e massimo del brutalismo italiano, è del 1954. Poi c’è, sempre a Milano, l’Istituto Marchiondi Spagliardi progettato dall’architetto Vittoriano Viganò. A Firenze, la Chiesa di San Giovanni Battista e le abitazioni del quartiere Sorgane. A Roma, la Casa Sperimentale di Fregene dell’architetto Perugini. E poi? E poi c’è Potenza. Il capoluogo regionale lucano è una città che appare, man mano che si studiano queste problematiche architettoniche, sempre più rilevante in relazione alla architettura artistica e di pregio del 1900. Ovviamente, a Potenza, organizzando un percorso a tappe nell’architettura del 1900, si trovano cose molto diverse fra di loro; stile umbertino, liberty, decò, fascista, razionalista, brutalista, postmodern e quant’altro. Parlando solo dell’architettura artistica o di grande pregio e tralasciando gli esempi peggiori e meno riusciti o non particolarmente rilevanti per la storia della architettura italiana moderna e contemporanea, il brutalismo artistico è presente a Potenza con l’arcinoto Ponte Musmeci (Musmeci Bridge, vista la considerazione manifestatasi nei Paesi di lingua anglosassone verso l’opera potentina), ma anche con il Palazzo bancario di Dante Benedetto Maggio. Quest’ultimo, però, forse, rientra più nella corrente postmodernista che in quella brutalista, pur nutrendosi anche di brutalismo. Ma a Potenza l’opera brutalista di più grande pregio artistico e più citata dagli studiosi come tipicamente tale, al punto che è inserita dalla critica al vertice del brutalismo italiano insieme alle altre realizzazioni succitate di Milano, Firenze e Roma, è un’altra; è senza dubbio l’Istituto Ortofrenico realizzato e progettato da Marcello D’Olivo tra il 1965 ed il 1970 alla fine del quartiere di Santa Maria ed all’inizio della zona Epitaffio. Anche in questo caso la sola aggettivazione brutalista non basta a definirlo; è anche un’opera neoespressionista. Dell’Istituto Ortofrenico di Potenza leggiamo, per esempio, sul sito pressletter.com, un sito internet di architettura moderna e contemporanea, queste parole di Fabrizio Aimar: “Anche nel Bel Paese dominano incuria ed abbandono e solo ultimamente pare che vi siano dibattiti sul tema. Trascuratezza ed oblio che tormentarono fino a pochi anni fa il geniale Istituto Marchiondi Spagliardi di Vittoriano Viganò (1957) e che tuttora (il testo è di cinque anni fa n.n.) intaccano l’Ospedale Ortofrenico di Marcello D’Olivo a Potenza (1965-1968) e la magnifica Casa Sperimentale di Fregene di Giuseppe Perugini”. Credo che questa breve citazione basti già a far capire una cosa; che l’Istituto Ortofrenico di Potenza è una delle opere più rilevanti, come dicevo già sopra, in Italia di questa corrente della architettura moderna e contemporanea. Vediamo ora cosa scrive di D’Olivo il ‘Giornale dell’Architettura’ (14 aprile 2010): “L’ospedale ortofrenico di Potenza è un’opera di particolare pregio progettata e realizzata a fine anni Sessanta dall’architetto friulano D’Olivo: un imponente complesso posizionato su un’alta collina con riferimenti brutalisti all’opera matura di Le Corbusier e alle geometrie in pianta di Frank Lloyd Wright. Visto il disinteresse della Soprintendenza, il recente tentativo da parte di associazioni locali di vincolare l’opera all’interno del nuovo Regolamento urbanistico è stato respinto dalla maggioranza del consiglio comunale”. Che dire di più? Intanto un ‘complimenti’ alla maggioranza del Consiglio Comunale del 2010, un vivo ‘complimenti’ retrodatato. Ovviamente ironico e sarcastico. Adesso c’è una nuova consapevolezza all’interno del Consiglio Comunale e della Giunta Comunale di Potenza sul valore del patrimonio architettonico e monumentale cittadino ed in particolare del ricco patrimonio architettonico del 1900, che stiamo scoprendo essere sempre più prestigioso al punto tale da risultare ai vertici della architettura italiana in alcuni casi e addirittura mondiale nel caso del Musmeci Bridge. Lo vogliamo sperare e lo possiamo sperare dalle seguenti parole. Le leggiamo sul sito del Comune di Potenza:
“L’attrattività per visitatori provenienti da fuori regione o dall’estero non è fatta solo di storia e dell’estetica perfetta dei monumenti rinascimentali. Partendo dal ponte Musmeci, esiste la possibilità di caratterizzare la città di Potenza come luogo della architettura contemporanea; come luogo di elezione nel quale venire a visitare pregevoli monumenti del periodo brutalista (oltre al ponte Musmeci, ci sono anche la ex sede della Banca Popolare del Mediterraneo, il Tribunale, il centro direzionale di via Di Giura, la chiesa di piazza don Bosco); come luogo di studio di aree urbane e quartieri disegnati con precise finalità abitative di servizio da nomi prestigiosi della architettura: il rione Santa Maria e il progetto Quaroni / Piacentini sull’ospedale psichiatrico modello, ad esempio, ma perfino il rione Cocuzzo, e la Nave, Bucaletto, che possono diventare laboratori di studenti per progetti di riqualificazione architettonica e sociale”.
Qui mi tocca fare delle precisazioni. Non tutta l’architettura del 1900 a Potenza è fatta di opere d’arte o di gran pregio che possano essere spese e sfruttate turisticamente, non tutte hanno un grande valore o un valore nazionale. Tra quelle citate dal Comune ce ne sono alcune che certamente non rientrerebbero mai nel mio personale tour attraverso l’architettura del 1900 a Potenza, un tour, il mio, che contempla ben quattordici tappe (facciamo mente locale sul seguente dato; quattordici attrazioni di collaudato valore per l’architettura del 1900 in una città di settantamila abitanti ne descrive anche una densità enorme). Nel mio personale tour non rientrerebbe il Tribunale, non rientrerebbe la Nave del Serpentone né Bucaletto. Tutt’altro … Nel mio personale viaggio attraverso l’architettura del 1900 a Potenza rientrerebbero invece delle opere che nell’elenco del Comune non sono nemmeno citate e che invece il lettore vedrà man mano approfondite e spiegate in questa rivista. Concordo pienamente, invece, sulla intenzione, almeno a parole, di caratterizzare Potenza (anche) come “luogo di elezione della architettura contemporanea, come luogo di elezione nel quale venire a visitare pregevoli monumenti del periodo brutalista” e non solo di stile brutalista. Tutto ciò va benissimo e mi compiaccio col Comune per aver manifestato per la prima volta una sensibilità affinata ed avanzata verso il patrimonio culturale ed architettonico cittadino soprattutto nelle sue componenti più avanguardistiche, ma, detto ciò, non posso fare a meno di rilevare due problemi urgenti da affrontare subito. Il primo è che questo patrimonio è conosciuto finora solo da ristrettissime cerchie di studiosi, di esperti, di critici a livello nazionale e che il pubblico, a cominciare dal pubblico potentino e lucano, non ne sa ancora quasi nulla. Il secondo problema, ancor più grave ed urgente del primo, è quello già indicato nelle citazioni riprodotte poco sopra: la manutenzione. Quasi tutti i monumenti e le opere della architettura del 1900 a Potenza, architettura, lo ripeto di grande pregio e che non si trova in tale concentrazione neanche in città più grandi e famose artisticamente di Potenza, necessitano urgentemente, specialmente quelli ‘brutalisti’, di manutenzione e rifacimenti che ne rispettino i valori artistici con una accuratezza filologica massima. Le opere brutaliste, in particolare, hanno, purtroppo, questo tallone d’Achille costitutivo, come ben sanno tutti gli studiosi ed appassionati di architettura contemporanea nel mondo. Quindi, chi di dovere, a cominciare dal Comune e dalla Sovrintendenza, si dia subito da fare per le parti che competono rispettivamente all’uno ed all’altra. Dal canto nostro, possiamo lanciare un messaggio alle istituzioni. Il messaggio è che fungeremo da cane da guardia oltre che da scopritori o da riscopritori nonché da rivalutatori del nostro grande patrimonio cittadino. Il tempo in cui si poteva sfregiare, sminuire, ignorare, o peggio addirittura, il patrimonio monumentale, artistico, architettonico (e culturale in generale) potentino è finito per sempre. Di ciò, stiano tutti più che sicuri.
PINO A. QUARTANA
Nella foto (di Rocco Guarino); L’Ospedale Ortofrenico di Potenza di Marcello D’Olivo.