LA GRANCIA DEI BRIGANTI E DEGLI EQUIVOCI

Il breve saggio che qui riproponiamo nella sezione ‘Reprint’ fu pubblicato dal periodico ‘Lucania Finanza’ nel novembre 2000. Nonostante siano trascorsi diciassette anni dalla data di pubblicazione del saggio qui riproposto e 157 anni dal dilagare di quei fatti ormai lontani e remoti, la tematica del brigantaggio in Basilicata è, incredibile a dirsi, ancora estremamente attuale. Proprio due o tre giorni fa il tema è stato al centro di un convegno a Rionero in Vulture, patria del più famoso brigante della Storia, Carmine Donatelli Crocco, a cui hanno partecipato esponenti lo due opposte e nemiche fazioni culturali.

 

Da anni si svolge nella foresta della Grancia in agro di Brindisi di Montagna, a pochi km. da Potenza, uno spettacolo piuttosto ‘sui generis’ dal titolo ‘La Storia Bandita’, che narra l’epopea del brigantaggio lucano ed in particolare la vita di Carmine Crocco, il brigante più famoso del periodo post-unitario non solo in Basilicata ma in tutto il Sud. L’evento a cui assistono molte migliaia di visitatori riscuote da anni molto successo, questo bisogna ammetterlo, ed è diventato discretamente noto anche in ambito nazionale. Nelle edizioni degli anni scorsi hanno collaborato anche artisti di primaria importanza nazionale come Lucio Dalla, Michele Placido e Antonello Venditti. Lo spettacolo, quasi una ricostruzione live della epopea brigantesca, è piaciuto molto e la fama dell’evento è rimbalzata a livello nazionale grazie anche all’interesse di molti tra i più importanti organi di informazione, fatto questo che accade molto raramente per le produzioni culturali che nascono in Lucania/Basilicata. In effetti, non capita quasi mai che la Lucania/Basilicata riesca ad imporre un tema al dibattito culturale nazionale, tanto da spingere anche le più prestigiose testate giornalistiche nazionali ed i loro commentatori a prendere posizione. Fin qui tutto bene, se non fosse per il fatto che in questa faccenda del Cinespettacolo all’aperto ci sono ancora molte cose che meritano di essere approfondite. Ad esempio, non sono ancora riuscito a capire chi è stato il finanziatore dell’evento, cioè, in altri termini, chi si è assunto il rischio finanziario, se è stata una società privata o un Ente Pubblico. So soltanto che i testi della ‘Storia Bandita’ sono stati redatti da Giampiero Perri, già divulgatore delle tematiche della destra tradizionalista cattolica, nonché ex candidato del PDL berlusconiano a Presidente della Regione Basilicata, se non ricordo male. Non sapendo chi sia e se ci sia un impresario non so nemmeno da chi abbia ricevuto l’incarico di scrivere i testi. Comunque, a parte questi piccoli dettagli formali e fatti salvi sia le valenze estetiche  e professionali, sia il successo di pubblico riscontrato, poco o nulla si è detto, e si diceva, in occasione dell’evento annuale dei riferimenti culturali, storico-storiografici ed ideologici che l’evocazione di una tematica ancora tabù, come quella del brigantaggio, inevitabilmente comporta, per non dire dei messaggi che, altrettanto inevitabilmente,  la messa in scena di soggetti come questo lascia filtrare. Da siffatti punti di vista lo spettacolo della Grancia richiede una indagine di altra natura, che serva a fugare, in un senso o nell’altro, i molti dubbi di tipo esclusivamente storico-culturale suscitati da questa rappresentazione in me ed in altri osservatori delle cose culturali regionali. Tanto per cominciare, trova l’autore dei testi che sia corretto aver ripubblicato un testo dello storico Pedìo (da poco scomparso) dal titolo ‘Reazione alla politica piemontese ed origine del brigantaggio in Basilicata 1860-1861’ con un titolo molto più ideologico e semanticamente ambiguo (potrebbe stare a significare, da un lato, la storia rimossa, la Storia espulsa dai libri di scuola oppure la Storia falsificata  e raccontata da una parte sola, oppure ancora, la storia dei banditi, più probabilmente tutte e tre le cose insieme), assumendolo, poi, come base di ispirazione per lo spettacolo sul brigantaggio? Si badi bene; non voglio dire che un libro di Pedìo non possa servire da canovaccio per un soggetto del genere, ma, piuttosto che una linea di continuità culturale Pedìo-Perri, seppur costruita ‘a posteriori’, è del tutto infondata. Le posizioni di Pedìo si possono definire, sia pure con una certa approssimazione, anarco-socialiste. Per chi si ispira alla sua linea interpretativa, la storia del brigantaggio lucano e meridionale del dopo-Unità può essere letta come una storia di sollevazioni e rivolte dei più diseredati, come la conseguenza di un tradimento, di una delusione storica (ricordiamo che Carmine Donatelli Crocco era stato a Potenza tra la popolazione festosa per essere insorta contro il presidio borbonico della capitale regionale), della sopraffazione di ‘signori’ e ‘galantuomini’, che schiacciavano i diritti di contadini laceri ed affamati. Una lettura, quindi, in chiave sociale, genericamente di sinistra, facilmente riconoscibile, tesa a mettere al centro della ‘vexata quaestio’ la mancata soluzione della ripartizione delle terre demaniali, una lettura storiograficamente consolidata, che, parafrasando non meno tragici linguaggi contemporanei, può far sì che i briganti possano venir considerati oggi quasi dei ‘compagni che sbagliano’ o che sbagliarono (in tal caso i ‘brigatisti rossi’ lucani dell’epoca non potrebbero mai e poi mai essere considerati Banditi Reazionari, ma Briganti Rivoluzionari o, meglio ancora, Briganti Riformisti. ‘Compagni’ che sbagliarono, ma che volevano una vera ed autentica giustizia sociale  attraverso la soluzione della questione agraria). Ancora oggi, nonostante le recenti cadute dei Muri e delle ideologie, questa chiave di lettura resta l’unica o quasi (in realtà, ce ne sarebbe almeno un’altra, ma non è il caso qui di parlarne per non sprofondare in speculazioni filosofiche troppo recenti e complicate) in grado di sopravanzare il livello storico delle classi dirigenti liberali post-unitarie, l’unica politically correct (ed adopero questa locuzione oggi tanto di moda ben conscio, ovviamente, dei suoi risvolti ironici e, finanche, autoironici), soprattutto l’unica in grado di riabilitare, in un certo qual modo, il fenomeno del brigantaggio. Dalla rappresentazione della Grancia è emersa, invece, una lettura in chiave ‘politica’ o ‘politico-ideologica’ del fenomeno brigantaggio, che appartiene a tutt’altra tradizione di pensiero e storiografica, quella controrivoluzionaria, definibile anche in tanti altri modi e cioè controriformista, cattolico ultra-tradizionalista, reazionaria, vandeana, sanfedista, legittimista, filo-borbonica e filo-papalina, dell’alleanza del trono con l’altare. Insomma, il ‘fior fiore’ dell’avanguardia teorica (spero si colga l’ironia). Come queste due linee (la prima, sociale e di sinistra e la seconda, politica e controrivoluzionaria) possano coesistere o, addirittura, identificarsi l’una con l’altra, diventare un tutt’uno, non si riesce proprio a capire ed allora cosa saggia sarebbe quella di considerare il cinespettacolo ‘La Storia Bandita’ solo come una delle migliaia di manifestazioni artistiche che si svolgono ogni anno in Italia, senza rintracciarvi contenuti ideologici o politici in grado di accreditargli un plusvalore. Uno spettacolo che andrebbe così del tutto neutralizzato nei suoi reconditi risvolti ideologici. Meritevole, al massimo, di un trafiletto di quindici righe nella pagina degli spettacoli del quotidiano locale. A dire il vero, leggendo le tre paginette di introduzione al già richiamato testo di Pedìo, ripubblicato sotto il titolo ‘La Storia Bandita’, la sensazione che ai promotori dello spettacolo della Grancia interessi solo il lato turistico-promozionale dell’evento sembrerebbe quella esatta:

“Fondare un progetto di sviluppo locale sulla valorizzazione della memoria storica e sul piano delle radici culturali, dar vita ad una coordinata azione di imprenditoria culturale quale possibilità concreta per rilanciare l’economia di un’area, realizzare con  il coinvolgimento dei soggetti sociali e delle agenzie educative (associazioni culturali, ambientalistiche, professionali, scuole) una forte iniziativa con specifiche finalità turistiche e di turismo culturale e rurale in specie, promuovere a tal fine le condizioni per una proficua collaborazione tra Enti pubblici e privati; questi gli obiettivi che, grazie al programma comunitario Leader II, una pluralità di operatori stanno ponendo in essere”.

Finanche la delicatissima ed intricatissima questione dell’identità regionale, di cui l’attuale rilettura del brigantaggio è un momento non secondario, sembra ridursi, in fondo, solo ad una questione di marketing territoriale.

“Esaltare una identità, renderla attrattiva, seducente, svelarne l’unicità e l’autenticità, proporla in forme idonee…”. Quindi, il brigantaggio o l’identità culturale di questa regione possono così essere resi in termini di marketing, né più né meno di come si può fare con i fagioli di Sarconi o con i vini di Rionero? Ma anche se così fosse, quale potrebbe essere l’opportunità, in un contesto influenzato fortemente da esigenze di marketing territoriale, di affermazioni del tipo “L’identità di un popolo è la sua storia”? Anche se questo rapporto tra identità locale e marketing meriterebbe ulteriori approfondimenti, mi sembra di poter dire, tuttavia, che espressioni di questo tipo non sono solo, a dir poco, oscure sul piano scientifico, ma contengono una enfasi ‘destinale’ quasi da ‘sangue e suolo’ (Blut und Boden) che si sa bene a quali territori ideologici addebitare. Questo linguaggio, tra l’altro, mi sembra del tutto sproporzionato in un contesto discorsivo finalizzato essenzialmente al marketing turistico e territoriale, fini del tutto condivisibili, del resto. In fondo, anche il legame montagna-brigantaggio, riproposto nello stesso contesto, con i briganti che diventano partigiani combattenti per la libertà, non è estraneo al bagaglio ideologico ‘controrivoluzionario’. Ciò che qui c’è di nuovo, di moderno, di astutamente subliminale (le tecniche del marketing certamente sono di grande aiuto anche nel packaging, anche nel packaging di tipo culturale), proviene, invece, dalle sensibilità e dai riferimenti coltivati, a partire dai tardi anni ’70, dalla ‘Nuova Destra’ italiana e francese; tutte cose che il sottoscritto conosce ed ha conosciuto fin troppo bene. Alla luce di quanto appena detto e riferito, torno allora a proporre interrogativi, dubbi e perplessità. Dal momento che in ambito storiografico e culturale si stanno rimettendo in commercio cose polverose e vecchie quasi come il cucco, non certo recenti scoperte della ricerca più avanzata, non credo sia “impertinente” (nel senso di “non pertinente”) chiedersi quale sia il vero senso della Grancia, tanto più che si assiste ad una convergenza ambigua di intenti che lascia esterrefatti. Anche chi non dovrebbe essere sospettato di nutrire simpatie legittimiste, e ci riferiamo all’attore (di sinistra, ovviamente) Michele Placido, partecipa con gioia al ‘revival’ revisionista senza farsi eccessivi scrupoli storiografici. In uno dei numeri del settimanale ‘OGGI’ dello scorso mese di agosto c’era un articolo dedicato allo spettacolo di cui sto parlando che riportava le seguenti dichiarazioni di questo noto attore, che è di origini rioneresi (lui è pugliese ma le radici dei Placido stanno a Rionero in Vulture). “Sono il nipote del più terribile brigante e me ne vanto” dice serafico. “Il brigantaggio post-unitario nell’Italia meridionale è stato un fenomeno patriottico e di lotta contadina, la ribellione di un popolo che si oppose all’invasore dello Stato piemontese che non tenne fede ala promessa di distribuire le terre demaniali…”. Già da queste poche parole è evidente che anche lui fa confusione tra motivi politici (il patriottismo) e ragioni sociali, motivi che non stanno insieme. La storiografia più avveduta li ha separati, non mancando di riconoscere che nei primi mesi della sollevazione antiunitaria i briganti erano strumentalizzati e guidati da Francesco II (rifugiatosi a Roma dal Papa) in complicità con lo Stato Pontificio. Per fortuna, però, il bravo attore ci rassicura un po’ tutti. Meno male. Cominciavo a preoccuparmi.

“Non voglio alimentare rivendicazioni secessioniste. L’Italia deve restare una, ma occorre riscrivere la Storia, senza le menzogne che hanno accompagnato l’invasione dei piemontesi nel Regno Borbonico. Basta con la retorica risorgimentale, facciamo emergere dagli archivi le verità che hanno portato alla cancellazione una Nazione che aveva oltre 700 anni di vita; il Regno delle Due Sicilie. Il brigantaggio non fu un fenomeno criminale e neanche Crocco lo fu, ma come ha scritto Carlo Levi nel ‘Cristo si è fermato ad Eboli’ la civiltà contadina difese la propria natura contro quell’altra civiltà che le stava contro e che senza comprenderla, eternamente l’assoggettava”. Qui, come se la confusione non bastasse già, come se non bastasse già l’errore marchiano di Placido di far durare 700 anni il Regno delle Due Sicilie, che, invece non durò nemmeno un secolo (fu costituito nel 1816 e morì nel 1860), si aggiunge anche la variabile indipendente ‘levista’ o ‘leviana’ al cui fascino nemmeno Placido sfugge evidentemente, purtroppo per lui e per tutti quelli come lui. In questo caso, il ‘levismo’ diventa il pendant di una impossibile coesistenza di opposte linee storiografiche e culturali, le quali trovano un terreno comune nella ostilità, almeno verbale, verso la cultura laico-liberale-progressista, verso la civiltà moderna ed urbana, verso l’illuminismo ed il progressismo (e fermiamoci qui per carità di piccola patria lucana). La tesi del brigantaggio come guerra contadina, elaborata da Carlo Levi in alcune belle pagine del Cristo si è fermato ad Eboli, come difesa della civiltà contadina, cioè di quella civiltà immobile nei secoli e che sta al di fuori della Storia, di quella civiltà senza Stato e senza esercito che si oppone all’altra civiltà, quella borghese ed urbana, frutto, invece, della Storia e che si muove nella Storia, nelle città e all’interno di una costruzione statuale, non manca di suggestione lirica e di profonda acutezza, ma, come tutta l’ideologia leviana/levista, è parzialissima, astratta, teoricamente ambigua (cfr. il mio saggio su Carlo Levi e sul levismo ripubblicato in ‘Potentia Review’ nel numero del 1° maggio 2016 dal titolo “Levi ed il levismo cinquant’anni dopo”). Nonostante aspirazioni anarco-socialiste e leviane o leviste, di cui pur si nutre, il cinespettacolo della Grancia di e da Brindisi di Montagna, Basilicata, sembra inserirsi, invece, in un più generale fenomeno nazionale, quello del revival revisionista o, se si preferisce, controrivoluzionario ed antirisorgimentale. Potrei pure dubitare del fatto che si tratti di questo, se nella scorsa estate non fossero capitati troppi fatti politici e culturali dello stesso segno, come, ad esempio il Meeting di Comunione e Liberazione di Rimini, dove, con Formigoni, politico di spicco dell’area cattolica lombarda, e, al tempo stesso, Presidente della più ricca regione italiana, la Lombardia, il brigantaggio meridionale post-unitario è stato esaltato e santificato in opposizione alla civiltà liberale ed urbana, fatto davvero inedito e stranissimo per un milanese, tra le altre cose. Non credo di essere il solo a dare questo tipo di giudizio. Tra i pochi interventi apparsi sulla stampa locale basilicatese o lucana a commento della ‘Storia bandita’ ho notato, per esempio, quello di un avvocato melfitano, impegnato in politica con i DS, Nicola Tartaglia, che vi ha rinvenuto “un subdolo messaggio politico”, per cui “uguaglianza, libertà e fraternità sono solo parole… Abbattuti dalla scure del revisionismo storico della Grancia sono caduti nell’ordine; 1) il movimento del 1799; 2) il socialismo di Garibaldi; 3) il Risorgimento italiano. Unica idea guida a salvarsi, la speranza nella Chiesa ed un richiamo alla patria perduta impersonata dal Cardinale Ruffo”. Il meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, svoltosi nello stesso periodo, è caduto proprio ‘a fagiolo’, non facendo altro che moltiplicare i già fortissimi dubbi sulla non casualità del messaggio politico, neanche tanto tacito, contenuto nei testi della ‘Storia Bandita’.

Ancora troppi equivoci sul Risorgimento

Mario Pirani ha pubblicato su ‘La Repubblica’ un articolo a commento del Meeting di Comunione e Liberazione di Rimini con il titolo “Il ritorno di Borboni e papalini”. L’autorevolissimo collaboratore del quotidiano romano scrive:

“Mentre a sinistra la si considera ormai un ingombrante bagaglio da cui liberarsi, la destra italiana sta inaspettatamente elaborando una sua ideologia. Il processo non appare preordinato ma, invece, paragonabile ad un inaspettato punto di coagulo di convergenze politiche finora suscitate al precipuo fine di conquistare la maggioranza accantonando le eventuali diversità. Con sorpresa quasi per effetto di una precipitazione chimica l’incontro sta provocando una contaminazione che potenzia ed amalgama pulsioni e caratteristiche culturali e politiche, fino a ieri separate e contenute in ambiti ben più ristretti. All’origine del fenomeno non vi è un Berlusconi ispiratore di ideologia, ma un Berlusconi ricettore centrifugante di alcune pulsioni convogliate con pragmatica regia nella direzione a lui più conveniente”.

Riferendosi alla campagna revisionista sul brigantaggio e sui Borbone, Pirani scrive:

“Quando si dipinge il Risorgimento italiano come una occupazione militare da parte del Piemonte invasore dei regni e granducati asburgici e borbonici e dello Stato della Chiesa, la formazione dell’Unità d’Italia con Roma Capitale come una imposizione autoritaria, i suoi propugnatori, da Cavour a Garibaldi, come una equivoca accolita massonica, Pio IX come un iluminato federalista, i briganti come partigiani della libertà e della Fede, è chiaro che non si sta compiendo una, sia pur discutibilissima, revisione accademica della  storiografia sull’argomento, ma una operazione politica attuale”.

Nella fase politica attuale (deprimente come non mai, a dire il vero), l’attacco all’unità nazionale portato avanti attraverso l’apologia del brigantaggio e la denigrazione acritica e demonizzante del Risorgimento (e non attraverso una, sia pur severissima, critica che sarebbe legittima) salda gli interessi convergenti del cattolicesimo integralista e reazionario (cui, per fortuna, è estranea la stragrande maggioranza dei cattolici praticanti di casa nostra, cioè del nostro Paese e della nostra regione) con quelli dei movimenti secessionisti del Nord e trova il suo punto di mediazione proprio in Formigoni, il cui attivismo, che dura incessantemente da alcuni mesi, non è affatto casuale, come si può facilmente osservare. Comunque, per una disamina critica di questo ‘revival’ sarebbe riduttivo ed anche un po’ miserabile buttarla in politica, dire che si tratta solo di strumentalizzazioni pre-elettorali e liquidare il tutto in due parole. A prescindere da questi contingenti risvolti, per noi lucani l’interesse per la questione del brigantaggio è una cosa seria che va oltre le bagattelle politiche del momento. Sull’argomento è stato scritto tutto o quasi. Nonostante ciò, si sente oggi, specialmente dinanzi a rappresentazioni come quelle della Grancia, il bisogno di ristabilire alcuni punti di vista su quelle storie lucane e meridionali di 140 anni fa e di sgombrare il campo da molti equivoci che su quelle hanno sempre aleggiato. Dopo tanto tempo da quei fatti sarebbe il caso di ribadire in ogni occasione che Unità d’Italia e Casa Savoia non sono necessariamente la stessa cosa (come si può ben vedere a partire dal 1945). Su questo malinteso le correnti reazionarie antiunitarie hanno sempre fatto affidamento, continuando tuttora a servirsene anche in un Paese che ha esiliato la dinastia fondatrice del suo primo Stato unitario. All’inizio della sua esistenza lo Stato scese sullo stesso livello dei briganti con la sospensione al Sud delle garanzie dello Statuto e con l’adozione di leggi speciali, tra cui la Legge Pica e quindi imponendo il terrore e diventando anch’esso, in un certo senso, criminale? C’era un altro modo di debellare la sollevazione dei briganti e dei legittimisti? Impossibile dirlo. Quel che è certo è che i primi governi unitari si delegittimarono da soli con una serie impressionante di errori (assenza di provedimenti sociali di riparazione, scelta politica unicamente repressiva, per dirne solo due), ma ciò non vuol dire che l’idea dell’Unità italiana fosse, o sia tuttora, degna di essere infangata. Non era un’idea solo di piemontesi, ma di lombardi, toscani, emiliani, romani ed anche di napoletani, lucani e siciliani. Anche di lucani, anche della regione epicentro del brigantaggio meridionale. Basti pensare al libro di Ferdinando Petruccelli Della Gattina sulla idea di unità italiana, che resta una delle opere più belle scritte in Italia su questo argomento. E che dire del “liberi non sarem se non siamo uni” del napoletano Vincenzo Cuoco, che poi ispirò l’analogo concetto del lombardo Alessandro Manzoni? E che dire delle denunce del democratico-radicale-azionista-autonomista avellinese Guido Dorso, che distingueva nettamente tra l’annessione del Sud allo Stato sabaudo, che egli definiva come ‘conquista regia’, dall’autentico spirito del Risorgimento? Le critiche ai governi post-unitari ed il riconoscimento, sia pur in varie gradazioni, di un sostanziale dominio colonialistico del Nord sul Sud sono fortemente presenti in tutte le correnti del meridionalismo liberale, democratico-radicale, socialista, azionista, marxista ecc. ecc. e si potrebbe continuare su questa falsariga per pagine e pagine. La propaganda dei revisionisti si nutre di altri equivoci storici non meno gravi. Chissà quanti tra coloro che hanno assistito alla rappresentazione della Grancia, assorbendone inconsciamente il messaggio politico o facendosi incosciamente plagiare da esso, si sono mai chiesti perché il brigantaggio non si manifestò nell’Italia centrale, nelle Marche, per esempio, o in Umbria (regioni pur lontane da Torino) per non dire nelle terre della Italia settentrionale, ma solo nelle terre dell’ex Regno delle Due Sicilie e nell’ex Regno di Napoli? E si sono mai chiesti anche perché tra tutte le terre dell’ex Regno delle Due Sicilie e dell’ex Regno di Napoli la roccaforte del brigantaggio fu proprio la Lucania o Basilicata che dir si voglia (siccome sono affezionato al concetto ed alla parola Lucania preferisco allora non parlare di Basilicata)? Non è stata proprio la Basilicata, anni dopo col romanzo di Carlo Levi, la regione che ha simboleggiato la miseria e la povertà estrema del mondo meridionale, dei contadini del Sud, senza dire della ‘vergogna d’Italia’ identificata con Matera ecc. ecc. Tutta colpa, sempre e solo colpa dei “piemontesi”? Non era un piemontese anche Carlo Levi? I piemontesi ebbero, come ho già ricordato prima, gravi e terribili colpe politiche nella insorgenza del brigantaggio, ma situazioni disperate di miseria, di fame e di ingiustizia sociale  non si creano in pochi mesi, non si sono create nei pochi mesi trascorsi dalla annessione allo Stato sabaudo, quindi diventato Stato italiano, fino alla sollevazione delle bande brigantesche. L’arretratezza era da ascrivere ai Borboni, ma sia detto per onestà intellettuale, nemmeno solo a loro, bensì anche alle precedenti dinastie che, dalla caduta degli Svevi in poi, si sono succedute sul trono di Napoli. Andrebbe sfatato un altro luogo topico della propaganda legittimista e che adesso sembra in molte parti del Sud, e specialmente della Basilicata, essere diventata verità rivelata; il mito delle industrie borboniche e della prosperità generale dell’ex Regno delle Due Sicilie. Si tratta di un aspetto che ancora oggi non è stato ben chiarito ed approfondito e sul quale si sono sempre creati forti dissensi non solo tra neoborbonici ed unitari, tra reazionari e liberali (come è logico che fosse), ma anche tra gli stessi liberali. Una cosa è certa; ai piemontesi, che non conoscevano assolutamente il Sud ed a cui era stato fatto intendere che il Sud era un Paese ricco e prospero, venne un colpo quando si resero conto sul campo e de visu delle effettive, disastrose, condizioni dell’Italia meridionale. Su questo punto c’è una certa divergenza di opinioni finanche tra i due grandi e più importanti meridionalisti, i lucani, Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti, rionerese il primo e melfitano il secondo. La visione di prosperità del Sud sostenuta dal Nitti (tesi che fu ripresa anche da Guido Dorso) non incontrava certamente il favore di Giustino Fortunato, per quanto neanche quest’ultimo escludeva che l’annessione allo Stato unitario avesse aggravato i problemi economici esistenti e compromesso la complessiva evoluzione della economia meridionale. Mezze verità e mezze bugie si sono intrecciate, contrapposte, senza mai dare una idea complessiva universalmente accettabile della situazione economica del Sud al momento della caduta dei Borboni. Di sicuro si può affermare che i Borboni furono i primi a costruire un tratto ferroviario in Italia, seppur brevissimo, la Napoli-Portici, ma non meno sicuro è che su circa 2.100 km di ferrovia esistenti in Italia nel 1861, ben 1600 si trovavano nel Nord, dei quali 1000 nel solo Piemonte. E’ vero che il Regno borbonico conosceva una certa fioritura di industrie (tessili e siderurgiche, soprattutto), ma questo fenomeno non era il frutto di una complessiva evoluzione economica e sociale dei sudditi meridionali, non era la conseguenza di un generale progresso economico, civile e culturale della società meridionale dell’epoca, ma solo di isolati insediamenti produttivi creati da capitani di industria stranieri, tra cui i Wonwiller, i Wenner, gli Schlaepfer. Il polo tessile salernitano era controllato per due quinti da capitale inglese ed il resto era svizzero o tedesco. La manodopera specializzata veniva dalla Svizzera, i macchinari delle filande venivano costruiti all’estero o erano forniti dall’estero. A Napoli c’era la sola officina meccanica di un certo rilievo esistente in tutto il Sud ed era di proprietà dell’ingegnere inglese Henry.

Solo  la mano d’opera non qualificata era fornita dagli abitanti del posto. Quindi, la colonizzazione c’era già prima che arrivassero i piemontesi ed era pure straniera, per quanto, ad un certo punto, o settentrionale o straniera, ciò faceva (e fa tuttora) assai poca differenza per il Sud. E’ vero che il re Borbone “badava alla buona finanza e a non aggravare i tributi, ma non all’equa distribuzione di questi e, soprattutto, nonostante qualche conato iniziale e qualche parvenza, non tentava di risolvere nessuno dei grossi problemi dell’economia meridionale, non costruiva reti ferroviarie, e si atteneva anche in ciò al quietismo…” (Benedetto Croce, “Storia del Regno di Napoli”, Laterza, Bari, pagina 228).

A ciò bisogna aggiungere che i sudditi del Regno delle Due Sicilie non capivano il ruolo delle imposte in uno Stato moderno, essendo stati abituali ad un patto tacito del tipo “poche imposte e nessun servizio”. Dire che il limite della monarchia borbonica fu la mancanza di aspirazione alla grandezza, cosa che è ammessa finanche da studiosi di simpatie neoborboniche, dire che si trattava, in ogni caso, di un infame stato di polizia è troppo poco. Abbiamo appena citato il più grande filosofo italiano del 1900, che, pur essendo abruzzese di nascita, si considerava napoletano (non certo lombardo o piemontese). Basta leggere le sue pagine sul Regno di Napoli per avere chiari i motivi dell’anacronismo di una formazione statuale come quella del Regno borbonico delle Due Sicilie.

Nella propaganda reazionaria, anche odierna, Garibaldi viene accomunato a Cavour come se fossero la stessa cosa. Non si fa rilevare mai il fatto che l’esercito meridionale era composto da settentrionali e meridionali e che esso fu stroncato dal conservatorismo semilegittimistico dei piemontesi, i quali furono indulgenti verso gli elementi filoborbonici e non tanto verso i garibaldini in cui vedevano il pericolo maggiore. I governi postunitari avevano non solo un’opposizione contadina, ma anche un opposizione democratica. A quest’ultima (ai democratici meridionali, ai garibaldini, ai membri del Partito d’Azione), i governanti di Torino ed i membri settentrionali e meridionali del partito liberale moderato avrebbero dovuto esser grati del fatto che al Sud le cose non andarono peggio di come andarono. Ci si dimenticò immediatamente, invece, che il popolo meridionale nell’estate del 1860 si era sollevato nel nome di Garibaldi. La situazione insomma era molto più complessa di come appare stando alla ricostruzione cine-spettacolare della Grancia. Quanto al tentativo di far apparire il brigantaggio lucano come una riedizione della Vandea o delle insurrezioni antinapoleoniche spagnole il consiglio che posso dare è di non provarci nemmeno tanto risulterebbe fuorviante. Esso non farebbe che riprendere vecchissimi schemi della propaganda legittimista e clericale, ampiamente screditati dalla storiografia più avvertita.

Il brigantaggio ed i problemi di ridefinizione dell’identità lucana

I troppi equivoci, l’aggressività dell’attuale revisionismo, il quale ha nomi e cognomi ben individuabili, nonchè tutto il repertorio sofistico-retorico della vecchia e nuova ideologia reazionaria, non spiegano ancora sufficientemente perchè il cinespettacolo “La Storia Bandita” abbia avuto la risonanza mediatica e l’afflusso di spettatori (paganti) che ha avuto. A questo punto credo che entri in ballo anche una sorta di specificità lucana del soggetto trattato ed ho già detto, al riguardo, che il grande brigantaggio scoppiò in Lucania, che la Lucania ne fu la roccaforte e l’epicentro.

Credo che l’epopea rappresentata in termini esteticamente suggestivi nel parco di Brindisi di Montagna tocchi profondamente l’animo dei lucani, qualunque siano le loro convinzioni. Il brigantaggio mette anche in moto, spesso inconsciamente, meccanismi pre-razionali d’identificazione personale che investono pesantemente il discorso sull’identità lucana. Gli ideatori della rassegna, d’altronde, fanno di tutto per avvalorare l’esistenza e la legittimità di un fascio semantico del tipo brigantaggio-sollevazione contadina-resistenza corale e patriottica di un popolo contro l’invasione (il popolo lucano). Le parole dell’attore Michele Placido convergono verso questo obiettivo. In questa versione, il brigantaggio non farebbe solo parte della storia del popolo lucano, ma ne costituirebbe la stessa identità. D’altronde, ciò viene affermato, del tutto esplicitamente, nella presentazione della ripubblicazione (con il titolo “La Storia Bandita”) del volume di Pedio, dall’ideatore ed autore dei testi quando questi scrive che “L’identità di un popolo è la sua storia”. Se così fosse, avremmo risolto, con poco tempo e con pochissima fatica, il puzzle dell’identità lucana. Purtroppo, la questione dell’identità regionale non è così semplice da definire e, se diamo per scontato che l’identità di un popolo è, semplicemente, la sua storia, potremmo credere di aver risolto il problema quando, in effetti, non lo avremmo neanche sfiorato e ci precluderemmo in partenza la possibilità di comprendere cosa è un’identità.

Questo limite scientifico e culturale non è specifico di questo discorso sul brigantaggio, ma, in genere di tutti quelli che tendono a definire questa benedetta identità lucana. Purtroppo, nel corso di questi ultimi anni, cioè, già da quando il Consiglio Regionale di Basilicata lanciò una campagna apposita, non si sono fatti grossi passi in avanti e la cosa è stata lasciata un po’ cadere perchè, a volte, non si sa proprio di cosa si sta parlando e, quindi, di cosa debba esser fatta questa “identità lucana”. I politici hanno lasciato perdere ed in quanto agli intellettuali lucani, beh, lasciamo stare…

A mio parere, tutti gli sforzi per un discorso serio, fondato, scientifico, sull’identità lucana si infrangono sullo scoglio di questa identificazione generica e poco meditata fra identità e storia. Per dirla in breve, poichè questo tema richiederebbe approfondimenti lunghi ed impegnativi, l’identità di un popolo è certamente contenuta nella sua storia, ma essa non è semplicemente e necessariamente tutta la sua storia. Il concetto di identità è tra i più ostici che le scienze contemporanee (filosofia compresa) abbiano davanti. Se si pensa che già l’identità personale è problematica per via di quella che alcuni filosofi contemporanei chiamano la “pluriappartenenza”, figuriamoci come può essere  complicato e contraddittorio formulare una seria e condivisa ipotesi d’identità di un popolo o di una regione, soprattutto di questa regione, che la contraddizione se la porta già nel nome (Lucania o Basilicata?). Senza dire, poi, che per definire un’identità regionale non basta mai un solo criterio di identità, ma ce ne vogliono diversi (identità storico-politica, identità antropologica, identità fisica e geo-politica, simbolica, ecc. ecc.) e che quando si rivendica il diritto ad avere un’identità, di città, di popolo o di regione o di nazione, solitamente si allude solo ad un concetto positivo di identità, non volendo accettare anche l’eredità negativa. Se, ad esempio, la storia di una terra (regione o nazione o altro) fosse quella di una eterna e continua colonizzazione subita (potrebbe essere anche il caso della nostra regione) quanti tra i suoi abitanti accetterebbero rassegnati la nozione di “terra di conquista” come proprio marchio identitario, pur sapendo che quel marchio proviene dalla lavorazione di materiali veri e non falsificabili (i reperti storici, i fatti)? L’identità non è semplicemte la storia perché quest’ultima si nutre di fatti anche fortemente contraddittori tra loro. La storia fornisce i mattoni, il materiale per costruire l’edificio identitario, ma l’identità è un’idea, una forma che deve essere elaborata dal pensiero, nella quale i cittadini debbano e possano riconoscersi. Per questo motivo nel campo degli studi storici servono gli storici, ma anche gli storiografi, senza dire dei teorici della Storia e dei filosofi della Storia. L’identificazione tra storia ed identità produce in ogni situazione solo esiti contraddittori e paralizzanti. Per questo motivo la ricerca di una identità lucana, venendo a ciò che ci interessa più da vicino, non fa neanche un passo in avanti. Tornando alla tematica specifica del brigantaggio lucane ed alle sue ricadute sulla definizione dell’identità regionale, c’è da dire che, da questo profilo, si pongono non pochi problemi per una riabilitazione del brigantaggio lucano e meridionale e per il tentativo, ormai evidente da parte di taluni, di imporre o proporre il brigantaggio come asse portante dell’identità lucana. A quanto pare, ci sono non pochi lucani pronti ad aderire o che hanno già aderito a questa linea culturale e non parlo solo dei trentamila spettatori della Grancia (molti dei quali però sono andati lì magari solo per passare una serata di svago), ma anche di tanti altri che alla Grancia non ci sono stati e che, magari, inconsapevolmente, si nutrono di spezzoni di questo globale ‘revival’ reazionario-revisionista, che non coinvolge solo il periodo postunitario, ma anche il 1799. A tutti coloro che hanno del brigantaggio quel tipo di credenza vorrei rivolgere, nella maniera più semplice possibile, delle domande non proprio oziose. Ad esempio, se Ninco Nanco e Crocco e tutti gli altri briganti appartengono alla nostra storia più specifica e più peculiare (per quanto ‘bandita’) e quindi alla nostra identità, che cosa ne vogliamo fare allora di Mario Pagano e di Palomba e di tutti             quei lucani assassinati sul patibolo sanfedista e legittimista del 1799, di tutti i lucani che sia nel 1799, sia negli anni del Risorgimento si sono battuti per la libertà? E del vescovo giacobino di Potenza del 1799? E di tutti i liberali, tra cui anche non pochi sacerdoti, che avevano fatto di questa regione una piccola, grande, oasi di civiltà prima ancora che arrivassero i piemontesi con il loro ‘liberalismo’ costituzionale? E di tutti i lucani ammazzati dai briganti-contadini? E di tutti quei lucani, piccoli o medio borghesi, guardie nazionali che si opposero a Crocco e che combatterono contro le bande? C’è un posto anche per loro nel nostro DNA regionale, nello scrigno delal nostra memoria collettiva e, quindi, nella nostra identità oppure sono fuori linea e rinnegati dalla patria lucana? A queste domande non si può replicare con l’argomento secondo cui essendo l’identità di un popolo la sua storia tutti i tipi di lucani poc’anzi ricordati sono parte della nostra identità perché sono parte della nostra storia. Sarebbe una tautologia, una banalità. Sarebbe come dire che, in realtà, l’identità è, al tempo stesso, tutto e niente. Se così fosse perché allora parlarne e sforzarsi di delinearne i tratti precisi? Se ci pensiamo bene non è solo la ricerca identitaria a creare tanti problemi, ma è la stessa storia, di cui forse non si conoscono tutti i capitoli. Forse, a chi non è lucano può sembrare strana questa abnorme situazione attuale per cui a distanza di centocinquant’anni dall’Unità d’Italia ancora non sappiamo veramente con chi stare. E’ colpa della scarsa informazione, delle poche fonti bibliografiche a cui abbeverarsi? Oppure del contrario; non è che di storiografia se ne è prodotta anche troppa e che alla fine “tutte le vacche sono nere”? Oppure, non sarà mica che, parafrasando Nietzsche, se l’eccesso di storia è un pericolo per la vita, l’eccesso di storiografia è senz’altro un pericolo per la verità storica, tanto si sa già in partenza che qualche buona ragione per rifarsi la faccia la trovano anche le peggiori canaglie?

Per tornare al rapporto fra brigantaggio ed identità lucana, ci sono ancora due aspetti da affrontare e vorrei farlo in estrema sintesi. L’attore Michele Placido, che vuol riabilitare il brigantaggio partendo non certo da posizioni reazionarie, ma piuttosto sociali e di sinistra, non si limita a parlare bene del proprio trisavolo Crocco, ma dà proprio l’idea di voler esaltare lo Stato borbonico nonché l’identità della ‘nazione napoletana’. Questi, però, ci dispiace per Placido sono argomenti anch’essi tipici della propaganda reazionaria e borbonica e lo sono da ben 140 anni esatti (cfr. La Conquista del Sud di Carlo Alianello, Rusconi, Milano, 1972). Il testo chiave del neoborbonismo è la cartina di tornasole indispensabile per accorgersi della associazione che accomuna in un tutt’uno le diverse nozioni di Regno delle Due Sicilie-Sud-NazioneNapoletana. La cosa strana era che essa funzionava anche sull’altro versante. Che dire, ad esempio, di Cavour per il quale tutti i meridionali erano semplicemente napoletani? Oggi, per fortuna, non siamo più a quei tempi e stiamo esplorando possibilità di federalismo regionale in base alle quali ha veramente senso riscoprire la storia del Sud ed anche le sue differenze interne. Non a caso, la ricerca dell’identità lucana è un obiettivo attuale come non mai. Se è così, mi chiedo e chiedo che senso abbia voler ricercare l’identità lucana e, allo stesso tempo, servirsi del brigantaggio giocato in un più vasto contesto reazionario/revisionista e neoborbonico in cui non esiste l’Italia, ma non esistono neppure le differenze interne al Sud. Esiste solo la nazione napoletana. Siamo tutti napoletani, come pensava Cavour? Lo siamo stati davvero? Lo siamo ancora, anche dopo 140 anni d’unità d’Italia e di caduta del ruolo di Napoli capitale? In realtà, così come non è mai esistita una nazione padana, così come non è mai esistita la Padania (se non nella fantasia mitomaniacale dei leghisti), allo stesso modo non è mai veramente esistita anche una nazione napoletana. Lassù, c’erano e ci sono lombardi, piemontesi, veneti ecc. mentre al Sud vi sono campani, pugliesi, lucani e calabresi. E lasciamo stare il discorso di ciò che Napoli capitale ha significato, ad esempio, per una regione interna come la nostra, dove i latifondisti sfruttatori e parassiti spremevano la terra ed i sudditi feudali per andare a sperperare tutto a Napoli, dove, in pratica si viveva solo di quello o poco più. Se la Lucania/Basilicata fu nel 1861 l’epicentro del brigantaggio e quindi della disperazione e della miseria ciò lo dobbiamo pure alla funzione che Napoli ebbe per secoli all’interno del contesto statuale meridionale. I simpatizzanti borbonici, a cominciare dai neoborbonici napoletani, ancora tantissimi a dire il vero, quelli che ogni tanto fanno uscire da Napoli qualche giornalino che invita gli eredi provinciali degli antichi regnicoli ad unirsi a loro nel dar vita a clamorosi sconquassi protestatari (che puntualmente non si verificano mai), pensino anche a questo fatto qualche volta.

Ultima annotazione sul rapporto tra brigantaggio (specialmente se declinato sul versante neoborbonico reazionario) ed identità lucana.

La rimozione di un tabù: fu una guerra civile fra lucani

Definire una identità cittadina, regionale o nazionale che sia, è tanto più difficile quanto più nella storia della città, della regione o della nazione di cui vogliamo definire l’identità si sono cumulate divisioni e differenze. Se ciò è vero, può esistere nella storia lucana un fenomeno meno indicato a definirne l’identità come quello del brigantaggio, che fu l’esaltazione al massimo livello dei conflitti interni (prima ancora che col ‘nemico’ piemontese), che fu, soprattutto, una guerra civile combattuta, non solo fra briganti ed esercito dell’Italia unitaria, ma, ancor prima ed ancor di più, una guerra civile combattuta fra lucani, fra i nostri trisavoli?

Questa immagine di una guerra civile tra lucani è scomoda, e capisco benissimo il perché, e quindi ricorre pochissimo (per non dire proprio che è stata sempre rimossa o non è  mai stata presente) nel dibattito storiografico e nella polemica storiografica. Al massimo, si è tentato, e si tenta, di far passare il primo aspetto, quello relativo alla guerra civile tra ‘fratelli d’Italia’, ma non si dice mai che fu soprattutto e prima di tutto una guerra civile fra ‘fratelli di Lucania’. Eppure questo è ciò che ci dice la Storia, la nostra tragica storia lucana, se la sottraiamo ad un uso politico contingente ed attuale e se la leggiamo davvero bene ed in profondità, non con gli schemi preconfezionati delle varie propagande, soprattutto con gli schemi della propaganda neoborbonica. Ciò non vuol dire affatto che il brigantaggio, inteso anche come guerra civile fra lucani, non possa essere messo in scena in forma “attrattiva, seducente…”, svelandone l’unicità e l’autenticità.

In genere, un prodotto estetico, a prescindere dal suo livello artistico, può riabilitare chi vuole, anche il peggior criminale. Il pensiero, la riflessione critica, seguono però altre logiche e spesso reclamano anche i loro diritti di supremazia culturale sulle produzioni artistiche. La critica d’arte, a sua volta, ricava i suoi paradigmi dalla Filosofia dell’Arte detta altrimenti Estetica (o estetica filosofica). Tutto è lecito artisticamente se ogni forma intellettuale, segue, nella chiarezza, la propria specifica logica interna. Quel che non è consentito è sovrapporre i diversi piani, confonderli, strumentalizzare tali forzature, improvvisarsi, qualsiasi sia il livello di operatività preso in esame, ciò che non si è. Tutto può essere lecito, ma fino ad un certo punto, in un contesto discorsivo adeguato e con gli strumenti teorici e professionali pertinenti. Si può anche tentare una riabilitazione del brigantaggio, però bisogna chiarire subito che una cosa è la riabilitazione ed un’altra è l’apologia acritica, soprattutto se portata avanti per mezzo di linguaggi dove la calda componente emotiva prevale sulla fredda componente speculativa. Detto ciò, forse il brigantaggio lucano (ma anche non lucano) più che riabilitato, va reinterpretato e se proprio si vuole insistere sul concetto di riabilitazione, allora occorre ricordare che già in tanti erano all’epoca (1861 ed anni successivi), anche moderati liberali di stampo cavourriano, a sostenere il carattere e l’origine sociale della questione-brigantaggio. Affermare e ribadire la natura sociale e non politica (ma sarebbe più adeguato definirla ideologica e non politica) del brigantaggio equivale già ad una sorta di implicita e parziale forma di riabilitazione. Ma se questo vale per il brigantaggio come fenomeno storico, non vale necessariamente per i briganti come singoli individui (alcuni dei quali piuttosto sanguinari, a dire il vero) per i quali, invece, non resta che la ‘pietas’. Naturalmente il concetto molto cristiano e popolare di ‘pietas’ dovrebbe riguardare ed abbracciare anche le vittime non solo lucane ma anche piemontesi dei briganti. La premessa indispensabile affinché il brigantaggio venga, almeno parzialmente ed implicitamente, rivalutato sta, quindi, nel fatto che la sua bandiera deve passare da mani reazionarie a mani democratiche. Solo in questo modo potrebbe delinearsi anche una coerente linea storico-culturale che possa candidarsi a rappresentare l’identità lucana, e questa linea è da intendersi come epopea della emancipazione (brigantaggio o, meglio, lotta contadina, emigrazione nelle lontane Americhe, occupazione delle terre nel secondo dopoguerra, azioni  di risanamento nei Sassi di Matera, definita ‘vergogna d’Italia’ e così via). Non dico che questa formulazione dell’identità lucana o basilicatese sia anche la mia (non lo è, infatti), né che coincida esattamente anche con l’identità di singoli centri della regione quali, per esempio, Potenza, la mia città (infatti, non coincide proprio per niente con l’identità di Potenza, anzi…), però questa linea della emancipazione contadina, oltre ad essere coerente, è anche  nobile e di lunga gittata storica (voglio dire che non si esaurisce solo nei fatti del 1860-1867), mentre l’impostazione reazionaria-legittimista, tanto cara ai creatori dell’evento della Grancia, non porta da nessuna parte, è del tutto anacronistica e non è affatto spendibile, se non sotto forma di sublimazione cine-teatrale. Un appello, per concludere. Con l’unificazione piemontese, per il Sud e per la Lucania/Basilicata, patria del brigantaggio ‘honoris causa’, continuò a piovere sul bagnato dal punto di vista economico e sociale. In questa sfera, la pavidità, il conservatorismo ottuso, l’odio classista contro i poveri ed i non abbienti, la miopia politica dei dirigenti dello Stato unitario appena formatosi, produssero conseguenze nefaste in contrade che erano già state rovinate dall’insipienza borbonica e dei governi dei secoli precedenti. Ovviamente, per non essere ciechi ed orbi, neanche si possono tacere le realizzazioni dello Stato unitario in campo economico (faccio un solo esempio, per non tediare il lettore e l’esempio è quello della costruzione di strade e ferrovie). D’altronde, sono ormai più che noti ed accertati i limiti della Destra Storica dei Cavour, dei Sella e dei Minghetti, purché si ricordi che la stessa Destra Storica ebbe, a livello nazionale, anche grandissimi meriti di altro tipo (basti pensare alla battaglia immane per raggiungere il pareggio di bilancio, cosa che avvenne nel 1876). Se lo spettacolo della Grancia, come abbiamo visto, è portatore di significati e messaggi che vanno ben al di là della sfera estetico-spettacolare o di marketing turistico-territoriale, la classe dirigente di questa regione, oggi, nell’anno 2000, nel novembre del 2000, invece di lasciarsi sedurre dalle sirene neoreazionarie e di cadere nelle loro trappole ‘revisioniste’, ha molti altri modi per onorare la memoria dei vinti della Storia.

Ad esempio, potrebbe approfondire e lanciare, anche in campo nazionale, quello che, secondo me, sarebbe un interessante tema di discussione e, cioè, la verifica esaustiva e definitiva (in modo che poi si azzeri tutto e non si parli mai più di dare ed avere) del danno subito (se c’è stato ovviamente) dalla Lucania e dal Sud con l’Unità d’Italia con quella unità pur tanto agognata dalle menti migliori di questa terra. Oltre alla verifica ex post dell’eventuale danno in termini economici e sociali, ne occorrerebbe anche un’altra, una verifica gemella relativa al risarcimento con il quale, eventualmente, la comunità nazionale avrebbe in questi 140 anni dello Stato unitario compensato quel danno iniziale, danno che poi ebbe, a detta anche di Giustino Fortunato, importanti ripercussioni a distanza di lustri e decenni. Un dibattito di questo genere sarebbe molto utile ed attuale anche nella prospettiva dell’avvento al potere, ormai dato per certo al momento in cui scrivo questo quasi saggio, di una forza che presenta aspetti speculari ed opposti a quello del revival neoborbonico e duosiciliano. Mi riferisco all’avvento della Lega Nord che disprezza il Sud ‘a prescindere’ ed in ‘toto’ e che rivendica risarcimenti al contrario, risarcimenti a favore del Nord. Anche considerando scenari meno cruenti, ci sarà sempre la grande questione dell’avvio di un federalismo piuttosto spinto per cui questa verifica definitiva del dare/avere reciproco andrebbe comunque fatta prima di azzerare tutte le chiacchiere e puntare tutti uniti verso il nuovo secolo ed il nuovo millennio. Avviare una verifica simile in modo intelligente ed equo, dare impulso ad una operazione politico-culturale di confronto, avviare una operazione di questo tipo sarebbero il miglior omaggio postumo alla memoria di tutti quei lucani, briganti o liberali, che persero la vita in quei tragici sommovimenti sociali e militari di circa 140 anni fa.

PINO A. QUARTANA

 

 

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