L’identità passa attraverso l’acquisizione della coscienza di sé. E può essere un percorso accompagnato anche da fruttuose letture, come nel caso che stiamo per esaminare: il caso del primo storiografo della città, relegato ai margini della conoscenza della cittadinanza per decenni, noto solo agli specialisti e ancora bisognoso di una lettura attenta, ordinata, perfino nel testo che egli scrisse, che non ci è pervenuto nell’originale. Si tratta del canonico Giuseppe Rendina. Cominciamo da quella che si definisce, ai “piani nobili” della cultura, la tradizione del testo, ossia il modo in cui l’opera del canonico ci è arrivata. Se vi recate nella nostra bella e fornita Biblioteca Provinciale, cercando tra le numerose preziosità di essa troverete, ad un certo punto, questa scheda: “Istoria della Città di Potenza di D. Giuseppe Arcidiacono Rendina dè Baroni di Campomaggiore, accresciuta di tempo in tempo, trascritta ed accresciuta da D. Gerardo Picernese”, ms. n. 8641. Il manoscritto non è quello originale del Rendina, ma la copia “accresciuta”, ossia annotata con riferimenti posteriori, dal canonico Picernese nel Settecento e trascritta, come si apprende dalle note del volume, dall’amanuense Manfredi Vaccaro. Ciò si rileva non solo dall’intestazione del manoscritto stesso, ma anche da una specifica annotazione del Picernese, che rimprovera al Rendina di non aver registrato nell’opera un fatto noto e conclude “Credo le potè registrare in un altro libro a parte”. Una copia, dunque, ma che copia! Unico testimone di un’opera altrimenti perita nelle sabbie del tempo e negli incendi che devastavano Potenza “ad ogni rivolgimento di popolo”, come notava un nostro cronista del tardo Ottocento. Dalle date, dalle citazioni e dai riferimenti ad eventi, persone e vicende personali dell’autore nel periodo in cui stava componendo la sua Istoria, si può quasi certamente concludere che Rendina abbia scritto la sua storia della città di Potenza a partire dal 1666 fino al 1673 e, se si considera che egli annota «per l’età, che mi trovo» (f. 104 ) , si può aggiungere che l’Istoria è un prodotto della sua vecchiaia. Ma chi era questo canonico Rendina? Nato dal Magnifico (titolo che veniva dato ai nobili locali) Ottavio Rendina della città di Muro e da Vittoria Pascale, fu battezzato, il 20 maggio 1608, a Potenza, nella parrocchia della Cattedrale, come si apprende dai registri dei battesimi custoditi nell’Archivio Diocesano. Possiamo, quindi, assumere il 1608 come data di nascita, probabilmente pochi giorni prima del battesimo, anche perché, come si sa, all’epoca la mortalità infantile era alta anche nelle famiglie di condizione più agiata e don Ottavio e donna Vittoria avranno voluto affrettare i tempi, tra l’altro, facendo battezzare il piccolo nella più prestigiosa delle parrocchie cittadine, riservata ai conti Loffredo e alle famiglie più in vista di Potenza. Com’era d’uso nelle famiglie patrizie dell’epoca, avrebbe ricevuto una buona educazione e, infatti, studiò nel seminario diocesano di Potenza per essere avviato alla carriera ecclesiastica, sicuramente in qualità di figlio cadetto, come si usava ai tempi. Il seminario potentino era poca cosa, in realtà, un po’ come tutti i seminari del Mezzogiorno d’Italia in età moderna: infatti, pur previsti dal Concilio per migliorare la formazione del clero, in Basilicata ne erano sorti soltanto tre nella seconda metà del Cinquecento, quello di Muro Lucano nel 1565, quello di Policastro nel 1591 e quello di Melfi nel 1597, mentre altri – tra i quali il nostro potentino – ne sorsero nel secolo successivo. Alcuni vescovi, nel frattempo, avevano messo a disposizione, a spese proprie, scuole di grammatica. Comunque i seminari lucani non avevano vita facile, a causa delle difficoltà economiche in cui si trovavano le diocesi lucane, dovute alla tenuità delle rendite del clero, in quanto erano i sacerdoti stessi a dover provvedere al mantenimento dei seminari attraverso una specifica tassa. Divenuto, appunto, sacerdote, don Giuseppe fu per qualche tempo parroco di Tito, che rientrava nella diocesi di Potenza e, infine, rientrato in città, proprio in qualità di sacerdote ebbe occasione, come si rileva dal manoscritto, di esaminare l’archivio capitolare e parrocchiale. Questo gli fu possibile anche perché sicuramente componente la locale ricettizia, sulla quale bisognerà spendere due parole. Le ricettizie erano associazioni di preti locali che gestivano in massa comune un patrimonio di natura laica, che poteva derivare o dai beni delle famiglie private o dalle università (col termine Università dal periodo angioino fino alla caduta del feudalesimo nel primo 1800 non si intendevano le attuali Università degli Studi, ma i Comuni), e ciò era consentito solo dai preti nativi del luogo che avessero avuto il privilegio di diventare “partecipanti” o “porzionari”. Il governo collegiale delle ricettizie avveniva attraverso due tipologie di assemblee, quella ordinaria e quella annuale. L’assemblea ordinaria veniva convocata ogni settimana, di solito il venerdì o di sabato, e la convocazione veniva affissa davanti la sagrestia, almeno un giorno prima, direttamente da parte dell’arciprete o, in sua assenza dal prete più anziano. La seduta era valida solo con la presenza di almeno metà dei componenti e aveva inizio con l’invocazione dello Spirito Santo. Dopo la discussione sui singoli punti all’ordine del giorno, si procedeva alla votazione il cui voto era segreto e si utilizzavano oggetti “di fortuna” come, ad esempio, fave o ceci. Uno dei problemi più discussi durante l’assemblea era l’assolvimento della cura delle anime, che era prevista come collegiale: ovunque, infatti, se la cura abituale era statutariamente riferita alla collegialità capitolare, di fatto era in genere legata a una sola delle dignità, di solito l’arciprete, che l’esercitava con l’aiuto di altri sacerdoti aggregati. Il clero ricettizio, non formatosi spesso per una vera devozione religiosa, si occupava di più della crescita economica e la possibile fruizione di beni e rendite della massa comune e con essa l’entità della propria quota capitolare annuale, peraltro con l’intento di poterla perpetuare per i propri familiari. Per questo veniva data particolare attenzione alla gestione patrimoniale, che di solito vedeva direttamente impegnati i sacerdoti. Questa era, accanto ai compiti liturgici, la vita condotta da don Giuseppe in città: tuttavia, il tranquillo trascorrere dei giorni del canonico potentino venne turbato dagli avvenimenti della rivolta di Masaniello del 1647, che anche nelle province del Regno e certamente anche in Potenza apportò odi e rancori. Egli stesso avrebbe ricordato che in quest’occasione l’incendio della sua casa e le persecuzioni subite in quanto nobile lo costrinsero a trasferirsi a Roma: qui Rendina, nel pieno della sua maturità intellettuale, conobbe intellettuali, ecclesiastici e non, che erano, di fatto, gli animatori della vita culturale e sociale dell’epoca. Lui stesso ne ricorda alcuni: Ferdinando Ughelli, Camillo Tutini, padre Zaccaria Boverio da Saluzzo. Tra questi, forse fu Ughelli a spingerlo agli studi storiografici: infatti, questo monaco cistercense fu il primo a concepire l’idea di comporre una serie di vescovi italiani raggruppati per diocesi, con notizie di ciascuno e delle chiese da loro rette con altri documenti inediti. La sua Italia Sacra, pubblicata in 9 tomi poderosi (che all’epoca erano detti in folio), uscì tra il 1644 e il 1662: le diocesi lucane erano comprese nel tomo VI, del 1659, sicché possiamo pensare, con una buona dose di probabilità, che il nostro Rendina avesse collaborato con notizie di prima mano quantomeno fino al 1662. Rendina dovette, poi, tornare a Potenza invogliato dagli illustri esempi a porre mano ad una storia di Potenza, visto anche che nessuno, fino ad allora, aveva tentato l’impresa. Dai cenni che egli fa, come detto, si suppone che avesse iniziato a scriverla – o almeno a prendere appunti – in una data successiva proprio ai primi anni Sessanta del secolo. Dopo il 1673 si perdono le sue tracce. Visto che, come abbiamo già detto, egli stesso afferma di avere già una certa età, si suppone che sia morto poco dopo, forse nemmeno completando l’opera. Di più non è possibile dire, vista la perdita quasi totale dell’archivio del Capitolo, in cui sicuramente si trovava menzione della morte del nostro don Giuseppe. E infine, riscopriamo questa sorta di “storia ibrida”, in quattro libri. Ibrida perché essa mostra chiaramente la sovrapposizione, visibile, peraltro, anche nella storiografia coeva di Matera e di Venosa, tra agiografia, archeologia e genealogia. Dopo i primi due libri, con discussioni erudite sul sito della città e sui dodici Santi Fratelli martiri, tra i quali era compreso Oronzo, antico patrono della città, Rendina passava a trattare, nel libro III, per meglio dimostrare la continuità del potere ecclesiastico, degli eventi storici riguardanti la locale Chiesa, concentrandosi sulle vicende della cattedrale e di Gerardo Della Porta, vescovo di Potenza e patrono della città, nonché, secondo il consueto modello della cronotassi che aveva appreso da Ughelli, sui vescovi suoi successori e sulla loro opera di costruzione degli spazi sacri, tramite la fondazione di chiese, monasteri e luoghi pii. Nel libro IV, infine, l’autore ricuciva storia sacra “antica” e storia recente, dimostrando l’importanza della propria città con la narrazione della rivolta di Potenza contro Carlo d’Angiò, della infeudazione ai Guevara, della venuta, nel 1502, del duca di Nemours, in attesa del Gran Capitano Consalvo de Cordova, chiudendo, come a suggellare la dinamica cittadina, con una vera e propria microgenealogia della famiglia Loffredo, che l’autore, seguendo in questo i dettami dei genealogisti, capziosamente legava al principe longobardo Arechi. Il Rendina viene generalmente riconosciuto come il fondatore della storiografia potentina. Secondo gli studiosi, l’opera risulta di indubbia rilevanza per delineare l’identità storico-culturale della comunità potentina: infatti in essa si esalta, secondo la consuetudine degli storici dell’Età moderna, “l’antichità, la cospicuità e lo splendore” di Potenza e se ne descrivono gli assetti istituzionali ed amministrativi, con ampi riferimenti alla storia religiosa ed all’agiografia; inoltre, molto spazio hanno, come si diceva, le notizie sui Loffredo, feudatari della città. Tale senso civico va interpretato come tentativo del patriziato, e del Rendina che ne difende i privilegi, di mantenere in vita la realtà locale e i suoi assetti anche tramite il discorso storiografico, in cui la storia è piegata a rendersi apologia non solo della costante fedeltà dell’aristocrazia al potere stabilito, ma anche dell’antichità di tali seggi e famiglie, che sono il cuore dell’ordinamento locale. Si spiega, dunque, l’uso costante e massiccio dell’archeologia, con ampi – e tendenziosi – ricorsi alle fonti documentarie: dal che si può concludere che questo lavoro del Rendina non è una vera e propria storia, bensì una raccolta di memorie sulla città di Potenza e sui luoghi e fatti che avevano ed hanno relazione con essa. L’opera storiografica di Rendina, dunque, va guardata, come sarebbe doveroso, non con gli occhi dell’oggi, ma con quelli dell’epoca: essa non è una cronachetta cittadina nel senso più deteriore del termine, ma un discorso con un forte richiamo al passato come origine e perno della costituzione presente ed allo stesso tempo tronco su cui si innesta la fedeltà verso i regnanti. La necessità di salvare dall’oblio i fasti patrii, così presente e diffusa nell’introduzione, diventa, dunque, discorso politico, riassunzione di un’antichità che non è solo modello esemplare, ma origine di tutto quello che la città ha di peculiare. Un modo, dunque, di guardare all’identità cittadina come radicata nel passato e che andrebbe studiato in modo assai più ampio di quanto fatto finora per questa Istoria, pubblicata solo nel 2000 in una trascrizione abbastanza fedele, ma da allora non facilmente reperibile e assai poco valorizzata.
ANTONIO D’ANDRIA