Qualche mese fa trattai da queste colonne un caso linguistico e dialettale molto interessante che ha a che fare con la sopravvivenza di parole e forme verbali dell’italiano più arcaico e poetico, dell’italiano nobile cioè letterario antico nel dialetto potentino. Si trattava della prima, della seconda e della terza forma singolare dell’imperfetto del verbo andare. Tutte e tre queste forme verbali in dialetto potentino si traducono con la stessa parola; ‘gia’. La forma deriva dal più nobile italiano (l’italiano delle opere di Dante) e, cosa davvero strana, permane al giorno d’oggi solo nel dialetto di Potenza. Devo dire che ho pensato che si trattasse di un caso isolato e sporadico, una curiosità a se stante e nulla più. Ma ora comincio a pensare che non si tratti più di un caso tanto isolato e comincio altresì a pensare che nei fitti scambi tra città e regioni italiane che sono intercorsi sin dai tempi più remoti e certamente sin dal Medioevo ci sia qualcosa che deve essere sfuggito a tutti noi potentini, un qualcosa che ha a che fare anche con la città di Potenza. L’ipotesi che l’esempio del ‘gia’ non sia così esotico ed isolato mi è venuto proprio recentemente, cioè notando la persistenza nel dialetto potentino di un verbo e di un tempo verbale molto frequente ed usato; la prima persona singolare dell’indicativo del verbo ‘vedere’; io vedo. Non ci si faccia trarre in inganno da un recente fenomeno dialettale che si sta, purtroppo, registrando a Potenza nel corso degli ultimi lustri; la sovrapposizione di parole e forme verbali del dialetto napoletano sul dialetto potentino puro ed originario. Non ho niente contro altri dialetti, anche più illustri e conosciuti, ma ribadisco solo il fatto che dobbiamo salvaguardare il dialetto potentino. Questa sovrapposizione del dialetto napoletano è portata avanti passivamente e in maniera inconsapevole da molti giovani ed anche da persone che si sono spostate in città dai paesi della provincia, specialmente dai paesi più vicini al confine campano. Spesso, oggi a Potenza, per esprimere quel tempo verbale si dice ‘vech’ o ‘vek’ alla maniera napoletana, ma questo, è bene che si sappia, non è dialetto potentino. Nel dialetto potentino vero e proprio, ‘vedo’ si dice vegg’, con un troncamento dialettale delle due vocali finali della originaria parola ‘veggio’. Il vegg’ (che non si pronuncia come veggh’ ma in maniera dolce, come veggio, appunto) puramente potentino viene da veggio. Invano, cercheremmo oggi in Italia una città in cui si usa la stessa espressione vegg’ o veggio. A Roma ‘vedo’ si dice esattamente come in italiano: vedo. Stessa cosa a Perugia, a Firenze e a Venezia. A Milano si dice ‘vedi’ o ‘vardi’, a Spoleto si dice ‘veco’, a Napoli ‘vech’ o ‘vek’, a Cagliari si dice ‘bego’, a Bari ‘vedech’, a Bologna ‘vadd’, a Torino e Genova ‘veddo’, a Cosenza di dice ‘viu’ e ‘viu’ anche a Palermo ed, infine nella parte sud delle Marche ‘vede’. ‘Veggio’ non c’è in nessun’altra città italiana, a parte Potenza. Un caso simile al ‘gia’? Sembra proprio di sì. ‘Veggio’ è, ancora una volta, una forma arcaica dell’italiano, ma, più che arcaica, si direbbe una forma dell’italiano più antico e poetico. Più nobilmente letterario. Come per la parola ‘gia’, il termine ‘veggio’ lo troviamo infatti in Dante. Esattamente, nel Canto XXIV del Purgatorio: Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore, trasse le nove rime, cominciando ‘Donne c’avete intelletto d’amore’, e subito dopo “Io veggio ben come le vostre penne, di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne”. E come non citare Guido Cavalcanti? “Veggio negli occhi de la donna mia un lume pien di spiriti d’amore, che porta uno piacer novo nel core, sì che vi desta d’allegrezza vita”. Cecco Nucoli, poeta perugino del 1300: “Io veggio ben la mia disavventura, che per temenza perdo il mio desire, e veggio ben che uom ch’è senza ardire, suo pregio non acquista per paura”. Nel Decamerone (terza giornata, decima novella) Giovanni Boccaccio fa dire alla bella ed ingenua Alibech, del tutto ignara delle gioie del sesso: ”Rustico, quella che cosa è che io ti veggio che così si pigne in fuori, e non l’ho io?” Per finire con Boccaccio (ma potrei citarne tantissime altre di strofe del 1200 e del 1300 con ‘veggio’). E’ l’inizio della Rima LXXXIII: “S’io veggio il giorno, Amor, che mi scapestri, De’ lacci tua, che sì mi stringon forte…”. Cosa aggiungere a questa incredibile persistenza tutta potentina (e solo potentina per le parole indagate fin qui sulla nostra rivista) di parole e forme verbali dell’italiano letterario del 1200 e del 1300? Come è possibile che queste tracce perdurino solo da noi e proprio da noi a Potenza? Non ho la pretesa di spiegare da solo e in questa occasione il fenomeno. Anzi, non ho affatto la pretesa di spiegarlo. Posso solo sollecitare gli studiosi della lingua italiana e dei dialetti a seguire questa pista. Posso avanzare solo alcune timide ed iniziali ipotesi. La prima è che in Italia nei secoli 1200 e 1300 si parlava così dappertutto, ma che l’isolamento geografico (e non solo geografico) di Potenza abbia favorito il perpetuarsi fino ai nostri giorni di queste forme incontaminate ed originarie, tra l’altro, le più nobili della lingua italiana e non solo dei dialetti delle aree circostanti. Una seconda ipotesi, sulla scia di Gerhard Rohlfs e del letterato lucano del XIII° secolo, Eustachio da Matera, è che nel Medioevo a Potenza sia arrivato un gran numero di immigrati provenienti dal Piemonte e dalla Liguria (‘Lonbardis populis…’, secondo Eustachio da Matera) e che essi abbiano portato a Potenza anche ciò che nelle parti più avanzate d’Italia la letteratura stava producendo. Ripeto, sono solo alcune delle ipotesi e ce ne possono essere anche delle altre. Rimane il fatto che il dialetto potentino non smette di darci belle sorprese e che esso va salvaguardato nella sua forma pura ancora praticata prima che sparisca e che si diluisca in altri dialetti meridionali di diverse origini.
PINO A. QUARTANA