Il titolo potrebbe tradire una certa volontà narrativa di un tempo perduto; nessuna enfasi nostalgica, invece; solamente il desiderio di tracciare linee per un’analisi storico-sociologica (per così dire) nel solco di un indirizzo di pensiero già di casa in questa sede. Anche quest’anno si è svolto, in concomitanza con la festa patronale di san Gerardo, il festival di musica folk potentino. Ha polarizzato molta attenzione e mobilitato parecchie persone, soprattutto la sera in cui si è esibito Vinicio Capossela, ricompensando pienamente gli organizzatori degli sforzi finanziari ma non solamente. Il suddetto festival è pienamente in sintonia con lo spirito culturale regionale dei tempi odierni. Il gran fermento simbolico incentrato su di un certo revival etnico, sembra essere efficacemente rappresentato dalla musicalità del folk, che recupera, come altre arti magari non riescono a fare pienamente, tutto l’impeto dell’ethos appartenente alla tradizione rurale della Lucania, ma anche un po’ di tutto il meridione. Ovviamente, come già esposto qualche tempo addietro da queste parti, la rappresentazione che la musica offre della ruralità, giocando sull’enfasi passionale d un certo mondo contadino, ne costruisce una immagine fantasticamente limata, che eleva la ruralità a mito. Questo diventa il punto cruciale di tutto il discorso; la musica etnica, con questa costruzione mitopoietica, riesce, prima e molto più efficacemente di altre forme comunicative, a preparare un terreno di approdo per quel mito della ruralità che colonizza l’immaginario collettivo lucano e che tanto utile e comodo è per una gestione clientelar-neofeudale del potere. Nel periodo che va dalla metà degli anni ’70 e che caratterizza l’intero decennio degli ’80, a Potenza ci fu un fermento giovanile attorno a generi d’avanguardia: dal rock-progressive, passando per l’hard bop, si raggiungevano vette d’avanguardia del rock-jazz. A Potenza e in Basilicata si organizzarono concerti di Dizzy Gillespie, di Chet Baker, degli Area, dei Perigeo e di tanti altri gruppi ed artisti che erano depositari dell’avanguardia musicale italiana ed internazionale. Confrontando i due momenti della storia potentina e regionale, potremmo azzardare un impietoso giudizio d’involuzione. A contrasto di tale sentenza, sicuramente sarebbero usati argomenti come lo spirito adattato e contestuale al tempo storico. E’ vero, il revival etnico, in tutte le sue sfaccettature e con in testa la musica è una delle forme culturali di salvaguardia dell’identità territoriale, che ha attecchito in funzione di contrasto alla potenza omologante della globalizzazione; così come è vero che negli anni ’70 e per un pezzo degli ’80 c’era una gioventù, che, incoraggiata da una società sempre più modernizzata, con buona crescita economica e con sempre maggior progresso tecno-scientifico a disposizione, sposava idee e pratiche culturali d’avanguardia, con spedita determinazione e piena coscienza di progresso. Però, sarebbe assurdo che ci fosse oggi un impantanamento culturale nel mito della ruralità; di sicuro, non siamo ritornati all’età della pietra. La modernità è un cantiere sempre aperto ed ha bisogno di uno sforzo riflessivo per continuare a fluttuare verso il futuro. La Basilicata deve svegliarsi ed affrancarsi dall’autocognizione ruralistica e Potenza può essere il centro propulsore di questa emancipazione, proprio come la sua gioventù del periodo ’70-’80 fece. Eppure, ci fu un tempo che può ritornare.
GIUSEPPE ONORATI